Adolfo Wildt è stato uno dei maggiori scultori italiani del XX secolo. Maestro della modellazione del marmo, è noto per il dramma raccontato nelle sue opere, che si possono trovare in tutto il Mondo, anche se è Milano la custode dei suoi più noti capolavori. Il suo rapporto con il fascismo ha determinato un controverso rapporto con la critica contemporanea.

Le origini di Adolfo Wildt

Adolfo Wildt nacque il 1° marzo 1868 a Milano da una famiglia di origine svizzera, anche se residente in Lombardia da duecento anni. Suo nonno fu coinvolto attivamente nel Risorgimento italiano, combattendo nelle Cinque giornate di Milano del 1848. Il patriottismo “familiare” rimase, nel bene e nel male, una delle principali costanti della sua carriera.
Primogenito di sei figli, suo padre faceva il portinaio a Palazzo Marino. Questo palazzo nobiliare, dal 19 settembre 1861 è la sede del Comune di Milano. A causa delle condizioni disagiate della famiglia, l’artista studiò fino alla terza elementare serale e a nove anni iniziò a lavorare: prima come garzone di un barbiere, poi da un orafo e poi finalmente da un marmista.

Adolfo Wildt e l’avvio alla scultura

A undici anni l’artista cominciò a lavorare, come ragazzo di fatica, nel laboratorio dello scultore Giuseppe Grandi (1843-1894). Grandi apparteneva al movimento della Scapigliatura, autore del Monumento alle Cinque Giornate di Milano in piazza di Porta Vittoria. Cambiò artista e finì nello studio di Federico Villa (1837-1907) dove davvero iniziò a emergere il suo talento nel trattare il marmo, cosa che fece di lui un richiesto finitore da diversi altri scultori. Fin da ragazzo si fece notare per la sua tecnica e in particolare per la capacità di riprodurre l’orecchio: elemento questo che gli valse l’appellativo di “oregiatt”.

Adolfo wildt
Adolfo Wildt, La vergine, 1925. By Sailko – Own work, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=54923284

Studente a Brera

L’artista riuscì finalmente a frequentare all’Accademia di Brera frequentò la Scuola Superiore di Arte Applicata. Studiando da autodidatta superò l’Esame di Anatomia; seguì poi il corso di Disegno e Figura nell’anno scolastico 1985-1986 ed ebbe come docenti furono Francesco Barzaghi e Ambrogio Borghi.

Il simbolismo nell’arte di Adolfo Wildt

Il simbolismo permeò da subito l’arte di Adolfo Wildt a cominciare da Vedova, opera esposta prima alla Società per le Belle Arti di Milano nel 1893 e poi alla Società di Arte Moderna nel 1894. La modella fu la moglie Dina, sposata nel 1891, da cui avrà i suoi tre figli: Artemia nel 1892, Francesco nel 1896 e Alma nel 1899. L’opera e racchiude in sé gli elementi caratterizzanti di tutta la sua futura produzione artistica; già i lineamenti sono essenziali tipici delle sculture della maturità.

Adolfo Wildt
Adolfo Wildt, Ritratto di Franz Rose, 1913 (Ca’ Pesaro). Di Sailko – Opera propria, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=54924174

Adolfo Wildt e i collezionisti

Nello stesso anno, 1894, incontrò il collezionista d’arte prussiano Franz Von Rose, che ritrasse in numerose opere. Grazie a tale supporto l’artista incontrò per la prima volta in vita sua la stabilità economica.Il collezionista gli riconobbe uno stipendio annuo di quattromila lire per un periodo di diciotto anni. In cambio l’artista si impegnava a dargli il primo esemplare di ogni scultura. In questo modo fu più libero anche nella sua attività artistica e nell’organizzazione delle sue esposizioni.
Von Rose non fu l’unico assiduo collezionista di Wildt, che ebbe la fortuna anche di essere supportato dall’amante di antichità Hermann Messtorff.

Adolfo Wildt e la Secessione

A Monaco si avvicinò alla Secessione e in particolare alle opere di Adolf von Hildebrand (1847-1921). In quegli anni, in Austria e Germania partecipò a molte mostre e da quei paesi molte furono le commissioni con il consenso della stampa e di storici come Von Bieberstein e Ehrenberg. Espose perciò anche a Zurigo, la cui cultura era molto influenzata da quella asbrugico-prussiana.

Artisti amici di Adolfo Wildt

Grande ammiratore di Rodin, nonostante un temperamento forte, divenne grande amico del pittore e  incisore svizzero Albert Welti, allievo di Arnold Blöklin. Non solo suo amico fu anche Hermann Hesse, con cui coltivò una lunga amicizia epistolare.

Adolfo Wildt e il marmo

La vita umana e artistica di Wildt fu contestuale a cambiamenti epocali per l’Europa in generale e per l’arte in particolare. Nato appena sette anni dopo l’Unità d’Italia, Wild vide il disgregarsi dell’Impero austro-ungarico e la nascita del Fascismo. Vide l’arte portata verso strade completamente sconosciute e nuove dalle avanguardie da una nuova generazione di artisti, da Picasso a Brancusi e tanti altri. Da questo fermento, anche se interessato, Wildt rimase fuori.  L’artista restò sempre fedele a se stesso e alla sua personalissima ricerca che, attingendo molto dal passato, era imperniata sul marmo. Possiamo dire che la sua è stata una vita per e con il marmo: la sua grande capacità tecnica gli permise di rendere questa nobile pietra lucida, a tal punto che i suoi critici la definivano provocatoriamente “porcelanosa”.

Hoepli e Wildt

Non stupisce perciò che per Hoepli Wildt scrisse addirittura un trattato nel 1921 intitolato “L’arte del marmo”. Quello fra Wildt e Hoepli fu un rapporto così solido che, nel 1924, l’editore incaricò di realizzare il proprio monumento funebre. Wildt realizzò quest’opera partendo da un basamento a forma di libro, trattandosi appunto di un editore, con gli stemmi di Milano e della Svizzera paese di provenienza dell’editore: il tutto con la scritta sulle pagine aperte del libro, in caratteri dorati: “La morte è la via della vita”, di Sant’Ambrogio, e “La vita bene spesa lunga è”, di Leonardo da Vinci.

Adolfo Wildt
Adolfo Wildt, Carattere fiero-anima gentile, 1912 (Ca’ Pesaro). Di Sailko – Opera propria, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=54922586

Il tormento di Adolfo Wildt

Adolfo Wildt è per molti lo scultore del tormento e della morte. L’artista nel ritrarre i volti li deformava per farne emergere l’inquietudine e il dolore fisico e psichico. Le bocche semiaperte, volti contorti, occhi vuoti, zigomi pronunciati: la quiete non abita mai nelle sue opere. Il tormento viene esaltato dalla lucidità del marmo, che conferisce all’opera una dimensione evanescente, come se di fronte ci trovassimo sculture di fantasmi o protagonisti di gironi danteschi.

Il suo stile risulta unico e al di fuori di tutti i movimenti a lui coevi, improntato alla tecnica che è anche contenuto stesso dell’opera. Se tutto cambia nella vita, per l’artista invece tutto torna. Così il rapporto con il passato si fa intimo e continuo. Emblematico l’autoritratto del 1909, momento non facile per l’artista ed espressione tangibile di un dolore implacabile. Quest’opera viene intitolata “Autoritratto. Maschera  del dolore”. Lo stesso forte riferimento alle maschere – tornerà spesso nelle sue opere – è coerente al ruolo del tempo nell’arte di Wildt: da un lato testimonia reminiscenze classiche, energie espressionistiche e valori formali tendenti all’astrazione, dall’altro la maschera è l’espediente e unica possibilità per l’essere umano per non mostrarsi e nascondersi dal passare del tempo.

La crisi artistica di Adolfo Wildt

Tra il 1906 e il 1909, l’artista attraversò tre anni complicati di cui dirà in seguito egli stesso che “si era fatto il vuoto. Nel mio studio, ovunque io mettessi le mani, nasceva la rovina”. Un  brutto periodo di crisi artistica ed umana espressa nell’autoritratto “Maschera del dolore” del 1909 in marmo dorato e marmo bianco convivono. E’ curioso notare come la crisi di Wildt corrisponda anche a livello cronologico con quella del più giovane Picasso, che nel 1901 diede vita al periodo blu. La crisi però per Picasso fu un momento di passaggio anche stilistico, per l’artista italiano fu invece la conferma della precarietà umana e un ritorno all’indigenza vissuta da bambino. In questi anni così precari e nell’ossessione per il proprio mantenimento, oltre al patriottismo familiare, vanno rintracciate in parte le origini del suo rapporto con il potere italiano, di cui Wildt diventerà sempre più complice narratore.

L’Italia: luogo da cui ripartire

Nel 1912, con la morte dell’amico Welti e del mercante Rose, mancandogli la rendita sicura che gli garantiva, si deve rimettere in gioco e, superando la crisi vissuta tra il 1906 e il 1909 che lo aveva portato a opere decisamente espressioniste, si rivolse maggiormente al mercato italiano. Wildt partecipò a mostre nel nostro paese e si avvicinò a Vittore GrubicyDe Dragon (1851-1920) e a Gaetano Previati (1852-1920).
E in fondo questo suo immergersi nella realtà artistica italiana lo aiuterà nella sua definitiva affermazione anche se non furono anni facilissimi anche per la concomitanza con la Grande Guerra. Negli anni della 1° guerra mondiale il mercato dell’arte attraversò infatti un brutto periodo, tanto che Wildt fu costretto a tornare alla sua attività di finitore e di illustratore grafico.

Adolfo Wildt: il successo dopo la Grande Guerra

Orecchio Adolfo Wildt
Orecchio di Adolfo Wildt. Realizzato dall’allievo Aldo Andreani. By Sailko – Own work, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=54922221

Terminato il conflitto, nel 1919, Adolfo Wildt espose in una personale a Pesaro che fu un successo di pubblico e critica. Egli stesso di questo momento disse: “Poi nel 1919 con la personale alla Galleria Pesaro venne anche il successo popolare ad allontanarmi dai fianchi quella terribile e crudele tirannia che era stata la Povertà”. Qui fu notato da Vittorio Pica e Margherita Sarfatti, che avrebbe avuto un ruolo fondamentale nella sua carriera artistica.

In questa occasione l’artista presentò tra l’altro un tema in cui già da molto giovane aveva dimostrato di eccellere: un orecchio. Presentò diverse versioni di sculture con questa forma, di cui una fu utilizzata come citofono del Palazzo Liberty Sola-Busca in Via Sorbelloni 10 a Milano. L’opera è diventata uno dei simboli stessi di Milano e la leggenda metropolitana racconta che si avverino i desideri sussurratici dentro.

Ancora, nel 1922 la Biennale di Venezia gli dedicò una personale: qui espose cinquanta opere e con “La famiglia” ottenne il Premio Città di Venezia e di nuovo un giudizio lusinghiero di Margherita Sarfatti unito però a stroncature di Soffici e Papini.
Nel frattempo, apre la Scuola del Marmo a Milano, che poi verrà integrata nell’Accademia di Brera dove dal 1926 insegnerà scultura e avrà come alunno perfino Lucio Fontana e Fausto Melotti arrivando nel 1929 a essere nominato Accademico d’Italia.
Contemporaneamente espose a Firenze opere come Umanitas, L’idiota a Maria, a una serie di Dieci disegni su pergamena. Partecipò quindi a mostre non solo in Italia, ma anche a New York e Parigi.
Nel 1931 alla Quadriennale romana, poco prima di morire, espose una serie di disegni, intitolata Ciclo delle grandi giornate di Dio e dell’Umanità.

I grandi ritratti

La popolarità di Wildt crebbe inesorabilmente, anche per la sua capacità di tessere relazioni. L’appoggio di Margherita Sarfatti e soprattutto di Giovanni Scheiwiller, editore e critico che sposò la figlia Artemisia, gli garantirono commesse importanti. Arrivarono così anche i ritratti importanti fra cui: Ritratto di Mussolini, Ritratto di Arturo Toscanini.

La morte

Nel  1931, il 12 marzo, morì improvvisamente a Milano nella sua casa di via Pasquale Sottocorno in seguito a una broncopolmonite. La Stampa di Torino lo ricordò come “Non un grandissimo scultore, ma certamente un artefice insigne e nobile”. Sepolto al Cimitero Monumentale di Milano in un monumento molto semplice dell’architetto Giovanni Muzio.

Adolfo Wildt
Adolfo Wildt, Maria dà alla luce pargoli_cristiani, 1918, Fondazione Cini Venezia. Di Sailko – Opera propria, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=54923796

Adolfo Wildt e il Cimitero Monumentale di Milano

Wildt riposa nello stesso cimitero dove ancora oggi si posso vedere molti dei suoi più celebri lavori: dalla stele in marmo con una menorah che ricorda, nel settore ebraico Cesare Sarfatti (Venezia, 1866 – Milano, 1924), insieme alla moglie, la nota critica d’arte Margherita Sarfatti (Venezia, 1980 – Cavallasca, 1961). O l’opera incompiuta per problemi economici dell’industriale Giuseppe Chierichetti. O ancora, fra gli altri, il monumento in bronzo realizzato in memoria di Benvenuta Monti Ravera, deceduta nel 1928 insieme ai due figli e al nipote, oltre che a una ventina di altri civili, a causa di un attentato terroristico volto a colpire il re Vittorio Emanuele III.
Sempre al Cimitero Monumentale spicca la splendida porta in bronzo dell’edicola Korner su cui campeggia la scultura Affetto nel dolore, la drammatica scultura, La casa del sonno, del Monumento sepolcrale Bistoletti ed il Monumento dedicato al pittore Bonzagni. Infine va menzionato “Ironia, satira, dolore”, splendido gruppo scultoreo che raffigura tre maschere, quella funebre, la teatrale e quella psicologica.

Adolfo Wildt, il fascimo e Mussolini

Adolfo Wildt Mussolini
Adolfo Wildt, Busto di Mussolini. Di This Photo was taken by Wolfgang Moroder.Feel free to use my photos, but please mention me as the author and send me a message.This image is not public domain. Please respect the copyright protection. It may only be used according to the rules mentioned here. This specifically excludes use in social media, if applicable terms of the licenses listed here not appropriate.Please do not upload an updated image here without consultation with the Author. The author would like to make corrections only at his own source. This ensures that the changes are preserved.Please if you think that any changes should be required, please inform the author.Otherwise you can upload a new image with a new name. Please use one of the templates derivative or extract. – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=18102021

Adolfo Wildt non si impegnò mai politicamente in prima persona, ma fu sempre un patriota conservatore e non disprezzò mai il fascimo. Realizzò numerose copie, in diversi materiali (anche bronzo) di busti raffiguranti Mussolini. La prima opera mostra chiaramente lo spirito e l’intento dell’artista che la realizza nel 1923 in occasione della celebrazione del primo anniversario della Marcia su Roma.

Wildt non si fermò e realizzò così anche il busto del duce che adornava la Casa del Fascio di Milano. La distruzione a colpi di piccone da parte dei partigiani nell’aprile del 1945 di quest’opera rimane una delle immagini iconiche della caduta del fascismo e rappresenta anche la damnatio memoriae dell’artista. Benito Mussolini non posò mai per l’artista. Wildt si basò sempre su scatti fotografici soffermandosi nella narrazione fascista e maschista, per cui ricalcò i lineamenti duri, volitivi.
Non stupisce così che nel 1929 fu scelto nel gruppo dei primi Accademici d’Italia nominati direttamente da Mussolini. Non è un caso nemmeno che la famiglia di Wildt ricevette le condoglianze non solo del Re Vittorio Emanuele III, ma anche dell’establishment fascista, dal Duce, al Ministro dell’Educazione Balbino Giuliano.

La critica e Adolfo Wildt

L’adesione di fatto al fascismo e il contributo attivo alla creazione di un immaginario fascista, complicò notevolmente la critica del lavoro dell’artista dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Solo dagli anni Ottanta, senza giustificare o minimizzare in alcun modo, il rapporto tra Wildt e il fascismo, è stato messo in essere un processo di pacificazione storica e rilettura – ancora in corso – dell’opera del Maestro del Marmo.