Il periodo blu di Picasso è la storia di un’amicizia infranta dalla morte. “Quando mi resi conto che Casagemas era morto, incominciai a dipingere in blu”. Con queste parole Pablo Picasso spiegava l’origine del suo periodo blu, il più intimista ed espressione di una crisi personale profonda. Non è il Picasso della rivoluzione cubista, ma l’artista che fatica ad affermarsi e a trovare una sua strada. Queste opere, tutte caratterizzate da toni scuri di blu e turchese in composizioni quasi monocromatiche, ora sono tra le più quotate tra quelle di Picasso, anche se all’epoca non incontrarono il favore del pubblico.

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17 febbraio 1901

Carlos Casagemas era un pittore e poeta spagnolo amico di Picasso a tal punto da trasferirsi insieme a lui a Parigi. Poco dopo, a causa di un amore non corrisposto si suicidò il 17 febbraio 1901. Picasso si ritrovò solo e lontano da casa. Al Café L’Hippodrome di Parigi sfogò il proprio smarrimento dando spazio sulla tela a malinconici blu e verdi. A pochi mesi dalla tragedia, Picasso tiene una mostra in cui i suoi quadri sono ancora intrisi di colori vivi nella galleria di Ambroise Vollard; si tratta di opere precedenti e di un’opportunità a cui l’artista, ancora agli esordi, non poteva rinunciare. Ciò accrebbe però il suo sconforto e senso di colpa. È perciò lecito pensare che l’opera “Casagemas nella sua bara” sia la prima del “periodo blu”. Questa forma di depressione diventa evidente nelle opere seguenti, quasi dei monocromi, in cui il blu sembra essere scalfito soltanto dal colore più chiaro, impiegato per ritrarre la pelle dei protagonisti.

Blu tristezza

Il blu è stato a lungo considerato lungamente nel passato il colore per antonomasia del potere e della religione. Con questo colore si ritraevano Re, la Vergine Maria o la ricca borghesia: celebre il blu di Raffaello e Vemeer. Con Picasso tutto cambia: l’artista vede nel colore livido il simbolo stesso della fine della vita. Impiega il blu come colore prevalente. Dal 1901 al 1904 dà forma a un corpo di opere estremamente coerente in cui si legge la profonda tristezza che pervade l’artista e che lo porta a inquadrare personaggi disperati come “Le due sorelle”, “Il pasto del cieco”, “Il vecchio chitarrista”. Parliamo di un mondo afflitto fatto di carcerati, di ciechi, di mendicanti. Non a caso la figura umana si allunga e quasi scarnifica: di fronte ci troviamo degli zombie che vagano senza una meta. Picasso rappresenta sulla tela per lo più figure solitarie, in difficoltà, metafora della condizione umana.

Il capolavoro “La vita”

Il periodo blu di Picasso trova la sua forma più universalmente riconosciuta ne “La vita”, realizzato dall’artista nel 1903 e oggi conservato al Museum of Art di Cleveland. Alla definitiva stesura l’artista giunge con due diversi studi, oggi conservati al Museo Picasso di Barcellona. Si tratta di un quadro “blu”, considerato un capolavoro, molto complesso, in cui convivono   più elementi, più situazioni. Picasso ci torna per mesi e possiamo dire che fu una vera forma di terapia per metabolizzare il lutto e il senso di colpa: Picasso, infatti, non si perdonava per la sua assenza da Parigi quando l’amico si suicidò. Non a caso in una dei disegni preparatori rappresentò se stesso al posto dell’amico Casegemas, presente poi nella versione definitiva del dipinto. Allo stesso modo la figura femminile con il bambino in braccio era all’inizio rappresentata come un vecchio artista incurvato dagli anni. Questa donna matura, vestita ed eretta, quasi scultorea, si contrappone all’abbraccio degli amanti nudi: questo gesto mostra una forma di pudore della carne di fronte alla maturità e ai doveri del diventare genitori, del passaggio dall’essere figlia all’essere una madre. Sullo sfondo altri due soggetti: sulla sinistra ancora una coppia e sulla destra più in basso un uomo raggomitolato su se stesso. E’ un’opera che vive di contrasti che si palesano nelle forte asimmetrie prospettiche e negli incroci di sguardi giudicanti tra i gruppi di personaggi ritratti. Complice un esasperato simbolismo, l’opera risulta enigma, distonica e quasi inquietante.

Picasso, il Periodo Blu e Alberto Giacometti

Incontratisi all’inizio degli anni trenta, l’amicizia tra Pablo Picasso e Alberto Giacometti è forse una di quelle più autentiche e durature nella storia dell’arte. I due artisti apprezzavano profondamente le reciproche ricerche e Giacometti fu uno dei primi grandi estimatori del periodo blu. Non a caso le figure emaciate e sofferenti ritratte da Picasso si ritrovano nello spirito e nella rappresentazione stessa dell’essere umano che tanto successo portò poi allo scultore svizzero.

La fine del Periodo blu

Picasso non amava spiegare troppo il proprio lavoro. L’arte era per l’artista spagnolo un linguaggio che non doveva essere decodificato razionalmente, ma arrivare alla parte più irrazionale dello spettatore. Ciò premesso, l’artista tornò più volte a parlare di questo difficile periodo dal quale si distaccò in modo irreversibile e brusco. Picasso arrivò in qualche misura persino a rinnegare quanto fatto in questi anni, ritenendolo troppo sentimentale e definendo “orrendo” l’opera “La vita”. Del resto, il Periodo Blu termina nel 1904 quando Pablo Picasso incontra Fernande Olivier (pseudonimo di Amélie Lang) con cui andrà a convivere dall’anno seguente. La ritrovata gioia, coronata dal trasferimento a Montmartre, segneranno il passaggio definitivo al Periodo Rosa e agli esperimenti primitivisti alla base del cubismo.