TESTO DI ALESSANDRA MATTIROLO / FOTO DI FEDERICO SUTERA

NEL CUORE DI VENEZIA TRA RIALTO E CAMPO SAN POLO, PALAZZO ALBRIZZI È UNO DEI PIÙ ALTI DELLA CITTÀ. DAL TERRAZZO SI GODE UNA VISTA SPETTACOLARE SULLA SERENISSIMA

C’è un pianoforte a coda Bösendorfer, in mezzo all’ampio spazio sotto i tetti di Palazzo Albrizzi. Dalle finestre una vista a 360 gradi domina tutta Venezia. Non c’è cupola, tetto, terrazza che sfugga allo sguardo; solo i gabbiani volano più in alto. Il palazzo, che risale alla fine del ‘500, è uno dei più alti della città. E l’appartamento dove Ernesto Rubin de Cervin Albrizzi ha passato gli ultimi vent’anni della sua vita ha due magnifiche terrazze, queste davvero senza rivali. A differenza della maggior parte degli altri importanti palazzi veneziani, Palazzo Albrizzi è sempre rimasto in famiglia. E forse non è un caso che proprio Ernesto, il più creativo e originale tra i suoi fratelli e cugini, abbia scelto per sé la parte meno “nobile” del palazzo. Ma l’unica su cui si potesse scatenare la creatività dei più avventurosi architetti veneziani. A Venezia tutti conoscevano Ernesto. Musicista, compositore, allievo di maestri come Luigi Dallapiccola e Goffredo Petrassi, fu a sua volta maestro di giovani talenti. Un uomo eccentrico, mite, dedicato alla cultura, alla conversazione, ai suoi affetti. Solo quando scriveva i suoi racconti emergeva la potenza di un’immaginazione più sfrenata ma sempre controllata, con lo stile di chi sapeva usare la parola con disinvoltura. La ristrutturazione, racconta Giovanni Rubin il figlio di Ernesto, venne affidata agli architetti Tonci Foscari e Ferruccio Franzoia, quest’ultimo ammiratore e seguace del grande Carlo Scarpa, le cui tracce si ritrovano in tanti dettagli: i battiscopa e le librerie in ferro, i legni molati nelle ante e nelle mensole, le simmetrie di porte e finestre. “Avrei voluto partecipare alla ristrutturazione”, racconta Giovanni, anche lui architetto, “ma avevo appena vent’anni ed ero ancora alle prime armi”. Il pavimento chiaro è di pietra vicentina. Le camere da letto sono perfette nella loro proporzione essenziale ma ognuna ha la sua nicchia sotto l’abbaino dove studiare e scrivere. Ironico, sagace, per nulla sentimentale, Giovanni si commuove quando parla di suo padre, che aveva già undici nipoti quando se ne andò un paio di anni fa. Quattro suoi, e gli altri dei suoi fratelli, Almorò ed Elisabetta. Non è un caso che l’ultimo maschio di Giovanni porti il nome del nonno. L’abusata citazione di Oscar Wilde questa volta è calzante: al piccolo Rubin è toccata l’eredità che il nonno ha onorato fino all’ultimo giorno: “L’importanza di chiamarsi Ernesto”.