L’arte topiaria è la manipolazione del patrimonio vegetale, impiegato come materiale plastico per comporre elementi ornamentali e architettonici, per scandire e decorare spazi verdi, e dunque per realizzare giardini

La forma delle piante

Quando nasce l’arte di addomesticare la natura? Non è certo, forse i Persiani solevano potare le siepi in forme regolari e certamente gli Egizi e i Greci conoscevano l’allevamento su pergolati delle viti e anche a spalliere del fico, come appare dalla raffigurazione sulla parete ovest della Tomba di Nakht (TT52), nella Necropoli tebana di Sheikh Abd el-Qurna, XVIII dinastia.

Pergolato di vite al momento della vendemmia, particolare della parete ovest della Tomba di Nakht (Theban Thomb 52) Necropoli tebana di Sheikh Abd el-Qurna, XVIII dinastia. Foto Flickr user ©Lucas CC BY 2.0

Di sicuro nella Roma tra fine dell’età repubblicana e primi decenni dell’epoca imperiale, con il miglioramento delle condizioni economiche e un periodo casalingo di relativa pace, si assiste a un fiorire di giardini, a partire da quello di Lucio Licinio Lucullo che lanci  la moda degli horti ricchi ed eleganti.

Fortunatus, il topiario

Alle Civiche Raccolte Archeologiche di Milano è conservata una stele funebre che recita:

D(is) M(anibus) | Fortunati | topiari | Valeria uxor | et Tertius | discens

Agli Dei Mani di Fortunato, topiarius, (offrono) la moglie Valeria e Tertius l’apprendista.

Fortunatus: chi era costui?

Verosimilmente era uno schiavo (non aggiunge nulla al nome, come pure la moglie), eppure era uno che aveva avuto fortuna nel suo lavoro: aveva un appellativo (topiarius), una stele funebre, un apprendista (non un semplice ragazzo di bottega, che si sarebbe definito puer). L’elegante decorazione della stele con vaso e foglie aveva il significato allegorico del refrigerium, il fresco benessere che si augurava ai defunti, più ai cristiani che ai pagani; ma forse per Fortunatus era anche un simbolo, quasi un’insegna professionale per un’attività, prospera, se richiedeva un apprendista.

Fortunatus era un giardiniere.

Gli studiosi da tempo dibattono circa l’origine del termine topiarius, un neologismo inventato dalla parola topia, dal significato incerto (è fantasiosa l’etimologia dal greco to topèion, la cordicella usata per piegare o traguardare le piante nella potatura) ed è impossibile dire se l’uso particolare del plurale topia fosse originariamente ellenistico e poi trasferito a Roma oppure un grecismo nato e usato solo per lo sviluppo peculiare dell’arte del giardino in Italia.

La parola topia- topiorum, topiarius, a, um è citata 27 volte nei testi latini: prevalentemente dai due Plinio -il Vecchio e il Giovane-,(14 volte nella Naturalis historia) e da Cicerone e Vitruvio. La citazione più antica è di Cicerone che, in una lettera al fratello Quinto (III, 1.55) nel 54 a.C. si complimentava con un topiarius che aveva rivestito di edera tutto il giardino della villa: tanto che le statue di bianco marmo greco sembravano essi stessi i topiarii intenti a mettere in bella vista il giardino.

Poco dopo, Vitruvio affermò che per mezzo dell’arte topiaria i suoi portici sui giardini si erano allargati prospetticamente con affreschi di paesaggi a tema su soggetti popolari (la guerra di Troia, il girovagare di Ulisse), “per topia” (dal greco topos/topoi, luogo), con scorci di paesaggio (secondo lo studioso Ermanno Malaspina, tuttavia, i Romani non erano ancora in grado di sviluppare il concetto di paesaggio e non avevano termini per esprimerlo, e quindi, secondo lo stesso autore, il termine va inteso nel senso di ‘giardini’. Sempre secondo Malaspina, Pierre Grimal fu indotto in errore da una traduzione di epoca successiva che introdusse una i nel termine topografia, e ne dedusse che la topiographia fose l’arte di dipingere le pareti con il paesaggio, ma il termine topiographia non compare mai nei testi classici).

Plinio il Vecchio – circa un secolo dopo – usò il termine più volte: “onore al pittore Studius che inventò uno stile piacevolissimo di pitture parietali ecologiche, amoenissimam parietum picturam (xxxv, 37.116), che raffigurava di tutto e ville e portici e topiaria opera“, cioè opere di giardinaggio. Plinio definì anche con precisione le piante che dovevano essere di tonsilis facilitas, di facile potatura, o textilis utilissima, adattissime per gli intrecci. Dunque per le topiaria opera erano da preferirsi le specie tonsiles, più adatte alla potatura, ma anche più tortiles, flessibili e intrecciabili (bosso, alloro, cipresso, edera).

Topiarius, –i  come sostantivo indica una mansione subalterna (non necessariamente servile) legata al lavoro di giardinaggio, con finalità estetiche e decorative, più che agricole e pratiche (occupazione degli arboratores e hortulani), la resa con giardiniere è riduttiva sarebbe meglio giardiniere ornamentale.

Prima della più antica attestazione conosciuta (Cic. Q.fr. 3,1,5) si deve supporre che il plurale topia avesse assunto una connotazione particolare all’interno del lessico del giardinaggio, per indicare i luoghi, anzi, i ‘posticini’ particolarmente gradevoli o bizzarri che i giardinieri ornamentali sapevano creare per lo svago dei proprietari terrieri; su questo termine, sicuramente in ambito latino, é poi stato creato l’aggettivo corrispondente topiarius. Un primo ampliamento di significato, avvenuto per sineddoche (il tutto per la parte), deve essere stato il passaggio da ‘luoghi del giardino ornamentale’ a ‘giardino ornamentale’ tout court, che ha riguardato anche l’aggettivo.

All’epoca di Cicerone il giardiniere ornamentale è ormai una figura precisa e riconoscibile, cui corrisponde la denominazione topiarius, termine che da aggettivo si è ormai trasformato in sostantivo.

Più tardi (almeno con Plinio il Vecchio), si specializzò anche il nesso topiarium opus che indicava le realizzazioni del topiarius o ciò  che era relativo al lavoro del topiarius (piante comprese); tra queste molteplici realizzazioni sono compresi anche arbusti e alberi modellati, che assumono denominazioni specifiche legate al verbo tondeo e all’aggettivo tonsilis. Solo una volta, in Plinio il Vecchio, compare il termine arte topiaria, praticata non solo con potature estrose, ma piuttosto con la creazione di architetture vegetali, tanto più che queste si possono ritrovare anche in forme spontanee e naturali. “un fico si allarga con fitti rami, di cui i più bassi sono curvati fino a terra, quodam opere topiario (come una specie di opus topiarium)”

Negli affreschi della villa di Livia a Prima Porta, oggi al Museo Nazionale Romano, nel giardino si scorge una specie di gabbia a largo graticcio intrecciato: una capanna di riposo, un berceau naturale, forse proprio una topia. Il topiarius sarebbe stato dunque chi sapeva adattare la vegetazione non solo con la potatura accordando opera tonsilia, gli interventi di potatura, e opera tortilia, gli interventi di piegatura forzata? Un abile creatore di scorci giardineschi quanto più pittoreschi e naturali.

E i giardini romani?

Le tipologie sono fondamentalmente due: il piccolo giardino urbano (hortus), confinante con l’atrio della casa e circondato da un porticato (come quelli di Pompei e Ercolano), e i più vasti giardini delle ville aristocratiche della capitale (indicati con il plurale horti), descritti da Plinio il Giovane e intesi anche come luoghi di evasione dagli affanni della vita quotidiana, in un abbraccio rasserenante con la natura. In questi giardini c’erano statue e gruppi scultorei che riproponevano il mito, ma poichè non tutti disponevano delle risorse per acquistare statue in quantità, i topiarii iniziarono a scolpire le piante sempreverdi in forme geometriche, antropomorfe e zoomorfe, arrivando a rappresentare scene di caccia o addirittura episodi della guerra troiana e delle peregrinazioni di Ulisse, cosicchè il giardino non era più solo lo scenario in cui ospitare le statue ma era esso stesso la materia delle rappresentazioni. L’opus topiarius consisteva nei cosiddetti nemora tonsilia o viridia tonsa, la cui invenzione è attribuita da Plinio a Gaius Matius, un amico di Cesare, Cicerone e Augusto. In uso anche l’abitudine di scolpire con il verde il nome del proprietario del giardino e talvolta anche quello del topiarius. Le piante più usate erano cipresso, leccio, bosso alloro, mirto, rosmarino, edera.

Rigidamente simmetrici, con viali rettilinei e ortogonali tra loro, fiancheggiati da siepi e alberi ben tosati i giardini romani divennero, in età imperiale, complesse costruzioni con porticati, tempietti, bagni, statue, concepiti dagli architetti come insiemi chiusi, privi di visuali esterne, dove fossero possibili l’isolamento e il riposo.

Dai giardini della ricca Roma imperiale il gusto per le piante in forma obbligata e un certo rigore nel disegno dei giardino fu esportato nei paesi dell’Impero.

Arte topiaria nel Medio Evo

Dopo il declino dell’Impero, l’arte del giardino visse una lunga eclissi (almeno dal IV sec. al IX sec. d.C), dovuta a un generale peggioramento dello stile di vita. I giardini concepiti come luogo di piacere e di riposo scomparvero, continuarono nelle villae rusticae le coltivazioni specialistiche con funzione alimentare e medicinale; vi fu anche un progressivo abbandono dell’agricoltura, dovuto alle abitudini alimentari dei nuovi invasori, che prediligevano una dieta proteica, quindi i campi venero trasformati in pascoli. Vi fu però  un’eccezione: i monasteri benedettini, costruiti secondo forme architettoniche memori delle ville romane, svilupparono un sistema di giardini, orti e frutteti, a cominciare dal monastero di Cassino, dove, all’insegna dell’Ora et Labora, ebbero inizio le prime sperimentazioni connesse al giardino monastico, piccola oasi al riparo dall’imbarbarimento in una spirale involutiva senza precedenti. I monaci mantennero viva la conoscenza legata alle piante, all’interno dei monasteri si coltivavano erbe mediche e aromatiche, la coltivazione giornaliera dell’orto elargiva la serenità interiore promessa dalla vita conventuale, l’opera degli amanuensi trasmetteva le preziose conoscenze del passato.

Il modello costruttivo di questo tipo di giardini racchiusi (hortus conclusus), con aiuole rialzate di forma quadrata o rettangolare, contenenti verdure e fiori, cintate forse (perchè non si hanno testimonianze certe) da siepi sagomate in bosso, Santolina, Teucrium, in una sistemazione articolata a scacchiera, si trova nel poemetto di Walafrid Strabo (Valfrido di Strabone), monaco di Reichenau vissuto nel IX secolo, intitolato Liber de cultura hortorum, noto anche con il nome di Hortulus.

La planimetria del monastero di San Gallo, risalente all’alto Medioevo, ci fa conoscere un’azienda monastica che obbediva alla regola della completa autosufficienza, una sorta di microcittà cinta da mura, nella quale convivevano i luoghi di preghiera e di lavoro, con gli ambienti dei monaci, il palazzo per il re e la sua corte, un ospedale, la farmacia e le foresterie per i poveri. Nel monastero si trovavano quattro giardini distinti fra di loro

  •  il giardino dei semplici (herbularius), dove venivano coltivate le erbe medicinali
  • l’orto, per le necessità alimentari
  • il pomarium o frutteto, costituito da tredici parcelle che si affiancano alle quattordici destinate alla sepoltura dei monaci
  • un giardino claustrale (che può  essere considerato come un’evoluzione del patio romano), con quattro aiuole e un albero al centro, forse per ricordare la perfezione del numero 4 e la perfezione paradisiaca.

Si pensa che la planimetria non sia un vero e proprio rilievo quanto piuttosto una proposta per una ideale città religiosa.

Planimetria abbazia San Gallo, Reichenau, inizi IX secolo.

Con il progressivo ristabilirsi di condizioni politiche ed economiche favorevoli, i giardini cominciarono a riapparire anche nei castelli e nei palazzi: giardini segreti, luoghi di piacere e di intrattenimento, di incontri amorosi, ricchi di fontane, aiuole fiorite, vasche di pesci, siepi e arbusti in forme obbligate, pergolati di rose, in un ordine che sempre più diventa geometrico, come documentano la vasta letteratura romanza, i codici miniati e la pittura, visto che nessun giardino si è conservato.

Emilia nel giardino di rose, Barthelemy d’Eyck, codex Vidobonensis, 2617, Österreichische Nationalbibliothek, Vienna

Arte topiaria nel Rinascimento

La grande rinascita culturale e artistica, accompagnato dalla riscoperta e rivalutazione di molti aspetti della civiltà classica, iniziò in Italia nel XV secolo per raggiungere il suo apice nel XVI secolo e investì tutto il mondo culturale e artistico, e quindi anche l’arte dei giardini. Il giardino rinascimentale è una chiara manifestazione del razionalismo umanistico dell’epoca, che affermava il chiaro dominio dell’uomo sulla natura. Leon Battista Alberti, alla metà del Quattrocento indicò come compito primario dell’architettura l’imitazione della natura, lo sforzo di replicare, nella costruzione, le proporzioni con cui essa configura tutte le sue creazioni. Nel Rinascimento rinacque il giardino della villa, al pari di quello romano, un’ideale prosecuzione del palazzo che si apriva sul verde attraverso logge e cortili (è questo uno dei caratteri speciali e distintivi del giardino italiano, in stretta correlazione poi con l’ambiente, in una sorta di intreccio tra giardino e paesaggio). Terrazze, fontane, vasche d’acqua, fungono da fondale prospettico agli spazi interni, dilatandone la magnificenza attraverso una calcolata sapienza scenografica. Si rinnovò  così il rapporto tra natura e cultura, tra spontaneo e artificiale; la natura spontanea fu disciplinata entro un disegno razionale, assoggettata alle regole della proporzione.

Lo spazio fu suddiviso in parterre (in italiano spartimenti) delimitati da basse siepi sempreverdi, a evidenziare un disegno semplice e simmetrico. Ne è un esempio il giardino quattrocentesco di Palazzo Piccolomini a Pienza (1464), che riprende il rigore monacale dei giardini dei chiostri, ma funge anche da punto di rottura, poiché non si tratta più di un giardino stretto da mura, ma affacciato sull’ambiente circostante. L’attuale sistemazione, frutto di restauri dei primi decenni del ‘900, è organizzata in 4 aiuole rettangolari tagliate al centro da uno spazio circolare, e da una stretta aiuola accostata al muro. I muri perimetrali sono ricoperti di rampicanti. (Il modello di arte topiaria utilizzato a Pienza si trova illustrato e descritto nel testo: Gli fructigeri arbori di forma hemispheria inconvexo. Milano, Adelphi 1998, tomo I pp. 306-7)

Giardino di Palazzo Piccolomini a Pienza (1464), frutto di restauro dei primi decenni del 1900. “[norikun1981]/stock.adobe.com”
Gli elementi con sviluppo verticale, attraverso la potatura, assunsero forme geometriche come cilindri, coni, sfere (ovvia derivazione della prevalenza degli elementi architettonici su quelli naturali), o anche zoomorfe fino a quelle più fantasiose, sulla scia dei disegni dell’Hypnoerotomachia Poliphili (Combattimento amoroso, in sogno, di Polifilo, Venezia, 1499). Le 196 xilografie che accompagnano il testo originale influenzarono tutta la concezione del giardino rinascimentale e manierista in Italia e in Europa. La parte più interna dell’isola di Cythera, suddivisa in 20 settori circolari, ospita dei parterre regolari connotati da disegni precisi, pergole con rampicanti e molte xilografie illustrano i modelli di potatura.

Hypnerotomachia Poliphili, forme di ars topiaria

Notevole, sotto questo aspetto, fu il giardino, oggi perduto, di Giovanni Rucellai a Quaracchi, che ospitava un ricco e caotico repertorio di forme topiarie in bosso (come documenta lo stesso proprietario nel suo Zibaldone) “Gran numero di belli bossi di variate maniere: cioè tondi, a palchi, navi, galee, templi, pile e piloni, vasi, urciuoli ; uno doppio, cioè che mostra da ogni parte gioganti, uomini, donne, marzocchi con bandiere del comune, bertuccie, dragoni, centauri, camelli, diamanti, spiritelli coll’arco, coppe, cavalli, asini, buoi, cani, cerbi; e un orso e un porco selvatico e delfìni, giostranti, balestrieri, un’ arpia, filosafi, papa, cardinali, e più altre simili cose”.  Fu in questo periodo che iniziarono a comparire le armature in filo di ferro alle quali intrecciare i rami più morbidi per realizzare le forme più complicate e ricomparvero le spalliere, le pareti verdi, le gallerie, le nicchie.

Tutte queste opere, per i loro valori plastici, sono da considerare come una vera e propria forma di scultura e architettura, le più consoni alla natura artificiale del giardino, al punto da scambiarsi i ruoli con le opere scultoree e le architetture derivate dalle infinite possibilità della mente umana; furono realizzate principalmente in bosso, ginepro, tasso alloro, leccio, cipresso.

Premessa: degli impianti originari dei giardini cinquecenteschi rimane poco, per vari motivi, non ultimo il mutare del gusto attraverso i secoli; quello che vediamo ora è frutto di ripristini successivi (spesso non fedeli all’originale) e sono pochi quelli di cui è possibile identificare con certezza la fase rinascimentale (come ha osservato Vincenzo Cazzato, spesso è difficile distinguere tra recupero e invenzione del passato). Ci si affida alla iconografia, alla letteratura.

Nella seconda metà del Cinquecento la concezione del giardino come luogo di equilibrio tra armonia della natura e razionalità dell’intelletto si ammorbidì per lasciare spazio a una maggiore libertà, secondo il gusto manierista dell’arte figurativa: rimasero parti che rispondevano alle regole della simmetria ma si lasciarono zone lasciate a selvatico, dove la natura era lasciata al suo corso. Il giardino diventò lo strumento per celebrare la magnificenza del committente, trovarono posto la regola intellettuale e la bizzarria, il gioco; caratteristica del tardo XVI secolo fu anche la ricchezza di architetture vegetali, labirinti, cerchiaie, ragnaie (strutture dedicate all’uccellagione), teatri di verzura, parterre che progressivamente si arricchirono di nuovi disegni, comparvero i primi labirinti (di cui, però, non è rimasta traccia, poichè furono ridisegnati in epoche successive).

La sintesi più efficace di questo spirito è il Giardino Di Boboli, dove il rigore razionale e geometrico è animato da vedute scenografiche e angoli fantasiosi e inattesi, tra cui la Grotta del Buontalenti e l’Anfiteatro di verzura: il Tribolo trasformò  una preesistente cava di pietra in una caverna verde, suddivisa in partiture regolari monospecifiche (platani, faggi, querce, frassini, olmi, abeti e cipressi), segnati agli angoli da cipressi (ricchezza botanica oggi scomparsa, la struttura in muratura visibile oggi fu costruita tra il 1630 e il 1637).

A Boboli troviamo anche una cerchiata, ottenuta accostando grandi siepi parallelepipedi a formare pareti sempreverdi chiuse ad arco, a delimitare un luogo ombroso sotto il quale sostare (o semplicemente passare da un lato all’altro del giardino) (probabile aggiunta del 1600).

Cerchiata di lecci nei Giardini di Boboli
“[CoinUp]/stock.adobe.com”
Esempi illustri di giardini del tardo XVI secolo che presentano elementi potati in forma obbligata furono Villa Aldobrandini a Frascati con il suo viale d’accesso, una cerchiata di lecci e il Teatro delle Acque, dove la scalinata che risale il pendio retrostante riceve un risalto ottico da un fitto bosco di lecci sagomati, Villa Lante a Bagnaia con i suoi ricercati parterre intervallati da elementi verticali potati a cono

Il succedersi di realizzazioni sempre più spettacolari, resero il giardino italiano un modello per l’arte europea dei giardini e questo determinò uno stile più recentemente detto “giardino all’italiana” e i suoi principi fondamentali a poco a poco diventarono un modello per le realizzazioni giardiniere europee e continuano a essere oggetto di ispirazione costante. 

giardino giusti
Giardino Giusti, Verona, nella struttura datagli nel 1570 da Agostino Giusti. Foto ©Dario Fusaro – Grandi Giardini Italiani

Arte topiaria nel giardino Barocco

Alle norme di simmetria ed equilibrio tipiche del ‘500, nel XVII secolo si aggiunsero la passione per gli effetti teatrali e scenografici, la ricerca per raggiungere un effetto compositivo più articolato: vennero introdotti tracciati circolari, curvilinei, volti a evitare contrasti troppo definiti. Per la nostra ricerca questo si tradusse in nuovi disegni per i parterre e una ricerca di volume per gli alberi, che spesso vennero raggruppati e lasciati crescere per  acquistare più volume, con una maggiore attenzione allo sviluppo verticale; la mano dell’uomo plasmò le siepi.

La ricerca dell’effetto teatrale comportò  un ruolo crescente dei teatri di acqua e di verzura: in questi ultimi le quinte, la scenografia e altri elementi erano interamente vegetali, normalmente in bosso o tasso sagomato, come nel celebre Teatro di Verzura della Villa Reale di Marlia; come i labirinti, si svilupparono, per compiersi pienamente nel XVIII.

In Italia il giardino che meglio incarna lo spirito scenografico e la ricerca di teatralità è quello dell’Isola Bella sul lago Maggiore, realizzata nel 1631, considerato uno dei più affascinanti esempi del Barocco italiano, in cui palazzo e natura sono un’unica architettura dove tutto è artificiale.

Il giardino di Villa Barbarigo a Valsazibio, Padova, è, invece, l’esempio più significativo di giardino simbolico del Seicento: tutto il complesso simboleggia il percorso spirituale che l’uomo deve compiere verso la purificazione e la salvezza, rafforzato anche dalla presenza di un labirinto di bossi che si sviluppa per circa un chilometro e mezzo.

Labirinto del giardino di Villa Barbarigo Pizzoni Ardemani a Valsanzibio (Padova), progettato da Luigi Bernini, XVII sec.

Arte topiaria nel Giardino alla Francese

Il giardino francese della seconda metà del 600 fu una vera e propria architettura verde le cui dimensioni si ampliarono grazie a un uso sapiente della prospettiva e dell’anamorfosi, per alterare la percezione visiva e ampliare lo spazio, correggendo eventuali dislivelli del terreno. Fu ostentazione di magnificenza e del potere del principi, come e più che nei grandi giardini manieristici italiani. Vaste aree del giardino vennero dedicate ai parterre de broderie, che erano in relazione con il disegno complessivo del giardino, che a sua volta era messo in relazione con il palazzo: erano una parte del tutto. Teorizzati da Olivier des Serres nel suo Theatre d’Agriculture, i parterre dovevano essere simmetrici e avere il medesimo peso ottico, più ci si allontanava dalla casa più grandi dovevano essere. Il più grande realizzatore di questi spartimenti ricamati fu Claude Mollet (figlio di Jacques che fu allievo di Etienne du Peràc, che aveva visitato i grandi giardini rinascimentali italiani), cui si devono i parterre di Wilton House nel Wiltshire, talmente belli da essere stati immortalati in incisioni (che oggi sono l’unica loro testimonianza, visto che sono stati distrutti), quelli di Fontainebleau (idem). Fu Jacques Boyceau de la Barauderie (che lavorò a Parigi ai giardini di Lussemburgo) a teorizzare che i parterre dovessero essere visti dall’alto, senza che nessuno ostacolo potesse interromperne la vista.

Il giardino divenne il luogo in cui la natura era stata sottomessa ai voleri del padrone di casa, la crescita irregolare di alberi e arbusti era addomesticata allevandoli in forme geometriche e simmetriche, sia come siepi, potate come se fossero elementi architettonici, sia come elementi dei parterre, lineari o curvilinei, in bosso, punteggiati da coni e piramidi di tassi potati, secondo disegni via via più complicati.

Gli artefici degli spettacolari giardini di Francia furono l’architetto le Vau, il pittore Le Brun e André Le Nôtre (dopo un primo periodo alle Tuileries, dove successe a suo padre che aveva lavorato con Jacques Mollet), i quali inizialmente crearono Vaux-le-Vicomte (1661), in cui il giardino appare come un’immensa gestione del potere, dove gli elementi della natura sono stati addomesticati disciplinati e riuniti per essere parti di un sistema creato dall’uomo. 

Capolavoro di Le Nôtre (e degli altri due, Le Brun aveva l’incarico di arricchire di statue il giardino, Vau quello di costruire i palazzo) è la reggia di Versailles che divenne il simbolo e il punto di riferimento dei giardini del XVII secolo, la testimonianza dello splendore del Re Sole e la cui costruzione durò circa 30 anni. In essa si ritrovano tutti gli elementi che erano stati sperimentati con successo a Vaux-le-Vicomte ma su una scala ancora più ampia, parterre en broderie dai disegni complessi, giardini formali, siepi potate come fossero muri verdi, alberate che sottolineano il complicato sistema dei lunghi viali, boschetti di alberi in forma obbligata che creano stanze verdi in cui si aprono arcate. File di alberelli potate nelle più svariate forme (secondo i disegni della Hypnerotomachia Poliphili) punteggiavano il viale centrale che conduceva al grande bacino di Apollo. La massa arborea circostante venne tenuta in forme geometriche, gli alberi utilizzati lungo i viali o per formare i bosquets e i muri verdi erano prevalentemente caducifoglia (carpini, faggi, olmi, frassini, aceri, tigli, platani), visto che il pallido sole della Francia sconsigliava l’uso di sempreverde di alto fusto.

Jean Baptiste da la Quintinie creò  per il sovrano il Potager du Roi, dove furono coltivati e  allevati a spalliera, e in molteplici forme, alberi da frutto, soprattutto di pero (il preferito del re) e di fico, in numerose varietà. (slide: Giardini di Versailles: potager du Roi) (slide: Giardini di Versailles: potager du Roi, alberi di pero allevati a spalliera)

Arte topiaria nel Giardino all’Inglese

In Inghilterra la topiaria, intesa in senso lato, visse le stesse alterne fortune italiane. Ricomparve verso la fine del 400 grazie alla stabilità politica ed economica, quando si svilupparono i grandi giardini di città che si ispiravano ai grandi giardini rinascimentali italiani. Del tutto peculiare dell’epoca Tudor fu un modello di giardino che si ispira all’hortus conclusus medievale reinterpretatto alla luce delle innovazioni del giardino rinascimentale. Nacquero giardini di grandi dimensioni fortemente disegnati, con partiture regolari di forma quadrata e aiuole che si ispiravano ai disegni molto complessi dei pizzi dell’epoca e anche ai disegni dell’Hypnerotomachia Poliphili, i knot garden,  formati da siepine di diverse altezze che si interlacciavano a simulare la presenza di nodi, realizzati prevalentemente con piante aromatiche (lavanda, rosmarino, timo, issopo, teucrio, santolina ma non il bosso, almeno fino a epoche recenti) per assicurare una varietà di colori e texture; l’aspetto era appunto quello di un ricamo. Era così formato, nel suo disegno originario, il Privy Garden di Hampton Court di Enrico VIII (1525), sostituito in seguito ai lavori di ammodernamento del palazzo nel XVIII. (slide: Disegni di Knot Gardens, The gardeners labyrinth, 1586) (

Tutti i sovrani europei vollero costruirsi la loro Versailles, gli Inglesi non furono da meno e così il giardino reale di Hampton Court fu nuovamente impostato secondo lo stile francese dal giardiniere John Rose, che fu mandato dal re Carlo II a Parigi per studiare sul luogo i lavori di Le Nôtre, nella seconda metà del XVII secolo e Sir Cristopher Wren ridisegnò  totalmente il palazzo e i giardini durante il regno di  Guglielmo III d’Orange:  la topiaria tornò importante per definire gli elementi strutturali, le siepi, i filari di alberi intrecciati, i labirinti con muri alti per aumentare la difficoltà del percorso, spesso in tasso, furono creati 2 labirinti (prima in carpino poi sostituito da tasso), di cui solo uno rimane ed è il più antico labirinto inglese giunto sino a noi.

Le figure topiarie sensu strictu vennero introdotte nel giardino inglese. Si diffuse al punto da spingere i letterati dell’epoca (Alexander Pope in testa) a condannare l’artificialità in giardino come frutto di un atteggiamento arrogante dell’uomo verso la natura, auspicando una composizione che si ispirasse all’armonia della natura: si erano poste le basi del giardino paesaggistico, che trasformò  la gran parte dei giardini inglesi, cancellando spesso le testimonianze del passato, con William Kent e Lancelot Capability Brown.

Nell’800 i proprietari dei giardini non erano più solo i nobili ma anche ricchi borghesi in cerca di privacy ai quali non potevano essere proposte le regole del giardino paesaggistico, pur se in cerca di un giardino di rappresentanza: non si poteva imporre di scegliere tra Le Nôtre e Brown. Come sempre in medio stat virtus e così Humphry Repton superò  l’ideologia della natura come base del giardino, proponendo un giardino misto, in cui accanto a zone formali nei pressi della casa propose un graduale passaggio a luoghi dolcemente ondulati che sfociavano nella wilderness della campagna, senza sconfinare nel pittoresco, evocato dalle scene dei dipinti dell’epoca.

Questo concetto di giardino fu poi applicato ai giardini dell’alta borghesia americana, nel famoso periodo della Country Place Era (Longwood Gardens)

Era anche l’epoca delle grandi esplorazioni botaniche, che portarono in Inghilterra nuove piante, che venivano collezionate nei famosi Italianate Garden proposti da Charles Barry in epoca vittoriana, terrazze di tradizione italiana (sullo stile di quelli delle ville medicee) in cui i giardini formali venivano abbelliti con grandi aiuole di fiori.

Arrivati a questo punto, si sviluppò l’idea che non ci fosse uno stile di giardino più appropriato di un altro ma fossero tutti ugualmente apprezzabili e utilizzabili: i giardini della tarda epoca vittoriana si caratterizzarono per il loro eclettismo, spesso contrassegnato da un gusto per il recupero dei giardini classici, come nel caso di Levens Hall, che iniziò  a essere recuperato nelle forme del XVII secolo dopo anni di abbandono. E così il ricorso all’arte topiaria in senso lato fece nuovamente capolino nel giardino: il ritorno della geometria portò con sè la reintroduzione delle siepi potate in forma, per suddividere lo spazio, o, aumentate in altezza, per creare zone più miti, per ospitare a loro volta piccoli giardini, per essere il perfetto sfondo contro il quale far risaltare i colori dei fiori (aspetto che prevale anche durante il movimento Arts and Crafts, erano anzi fondamentali per Gertrude Jekyll e i suoi giardini in cui il colore era una prerogativa fondamentale) o per ricreare il senso di raccoglimento dei bosquets barocchi, per formare stanze. Anche la topiaria sensu strictu viene recuperata. Fedeli a questa idea di  recupero, anni dopo si inserirono i grandi giardini amatoriali britannici, che divennero icone mondiali.

Il 900 e gli inizi del nuovo millennio

All’inizio del XX secolo diventò  una moda il recupero degli stilemi classici, in accordo con il revival del giardino formale, anche come rifiuto delle esasperazioni delle avanguardie artistiche dell’Art Deco e dell’Art Nouveau: si recuperarono giardini antichi e se ne realizzarono ex novo dal nulla. In alcuni casi nacquero o rinacquero dei giardini che divennero icone: Villandry in Francia, Villa Gamberaia a Settignano.

Nuovi giardini, ispirati allo stile rinascimentale, furono creati da Cecil Pinsent in Toscana, villa le Balze a Fiesole, La Foce a Chianciano e I Tatti a Firenze e da Arhur Acton Villa La Pietra a Firenze.

Fu molto attivo Achille Duchène (in un primo tempo impegnato con il padre nel restauro di Versailles, Vaux-le-Vicomte e Courances e in quello dei giardini scomparsi durante la rivoluzione francese oppure cancellati per essere adattati al gusto paesaggistico inglese) che progettò centinaia di giardini nel mondo, soprattutto negli Stati Uniti, interpretando la tradizione senza mai avere la pretesa di voler nascondere la ricostruzione.

Nel secondo dopoguerra il paesaggismo si è affermato ma non c’era più la ricerca di uno stile univoco, per i nostri scopi è interessante una tendenza che contempla una struttura formale con un disegno strutturato, contrapposta a una vegetazione libera, dove appaiono stanze, intese come ambienti che assolvono a funzioni diverse, il tutto mediato dalla personalità del progettista.

In questi casi le architetture verdi, i parterre formali, le siepi squadrate e anche le sculture verdi consentono di avere un valore ornamentale per tutto l’arco dell’anno.

Le forme vegetali sono alla base di quelle figure strutturali e ornamentali (spalliere, pergolati, padiglioni, siepi, bordure di aiuole e composizioni varie) che nel tempo hanno contribuito all’articolazione degli spazi del giardino, alla loro decorazione, alla loro stessa invenzione. In questo senso la topiaria non può esaurirsi.

Elisabetta Pozzetti 

©Villegiardini. Riproduzione riservata

Ti potrebbero interessare anche: