La cerimonia del tè giapponese è un momento condiviso di profonda meditazione ma anche rappresenta l’ospitalità. Il tè, come unità particolare fuori dal tempo e dallo spazio. È questo e ancora di più la cerimonia del tè giapponese, o meglio, come sostiene Piero Angelini il mistero della cerimonia del tè. “Solo in Giappone il fatto di bere un tè può diventare una questione di vita o di morte, o semplicemente di metafisica” continua. Una cerimonia che si fonda sul principio di idealizzazione della natura. Principio radicato nella cultura giapponese e così distante dall’ideologia occidentale, più improntata sull’imitazione della natura stessa. 

La cerimonia del tè è nel Giappone antico un momento di grande elevazione della vita, un rituale sociale riservato a pochi e finalizzato all’educazione dell’individuo. Durante la cerimonia, non si rinsaldano solo i legami con il passato, ma ogni volta si ricrea e rinnova il mistero dell’ospitalità. E la casa del tè, in questo caso, diventa laboratorio spaziale di sperimentazione del vuoto interiore. Una cerimonia delicata e squisita, in cui coloro che vi si dedicano passano l’intera vita a studiare l’Arte del Tè, che rimane l’unico e vero protagonista e fulcro della cerimonia.

 Kazuko Okakura, un dei più grandi studiosi di cultura nipponica del XX secolo, chiama “tèismo” il culto, o religione estetica, fondato sull’adorazione del bello in relazione al tè. Un’adorazione che nasce nel XV secolo e prosegue fino ai giorni nostri e che si contrappone, fin dalle sue origini, alle miserie della vita quotidiana. Purezza, armonia, mistero sono le principali caratteristiche individuate da Okakura. Lo studioso riconosce anche una probabile origine dell’adorazione del tè nel lungo isolamento del Giappone dal resto del mondo, rafforzandone l’introspezione e sviluppandone le caratteristiche culturali di fondo. 

Di come il tè divenne la bevanda più bevuta al mondo e come giunse in Europa

La prima testimonianza sul tè è documentata da un europeo risale al IX secolo. Un viaggiatore arabo sostiene che le maggiori entrate di Canton, in Cina, derivavano dalle imposte su sale e tè. Anche Marco Polo, nel 1285, riporta la notizia di un funzionario destituito per aver aumentato le imposte sul tè. Ma è l’epoca delle grandi scoperte, a partire dal XV e XVI secolo, quella in cui gli europei iniziarono ad interfacciarsi con l’Asia e soprattutto con i suoi prodotti.

Alla fine del XVI secolo gli Olandesi e i Portoghesi diffusero in Europa un insieme di erbe aromatiche che, con il tempo, avrebbero preso il nome di tè. Pare sia stata Caterina di Braganza, consorte portoghese del re Carlo II d’Inghilterra, a portare nel Regno Unito la gradevole bevanda che è poi diventata il simbolo di un impero. Infatti in seguito, gli Inglesi portarono il tè in India e qui stabilirono le loro piantagioni. Il tè allora si diffuse in Francia, Russia e Inghilterra, dove la bevanda cinese chiamata cha (o tcha) prende il nome di tay e, in seguito, tea. 

Inizialmente, il costo elevato ne impediva il consumo da parte del popolo. Quindici o sedici scellini la libbra erano un prezzo che potevano pagare solo la nobiltà o l’upper class. Gli appartenenti a questa classe sociale divennero bevitori incalliti di quella che Okakura definisce una bevanda che “non ha l’arroganza del vino, né la supponenza del caffè, e neppure la leziosa innocenza del cacao”. Anche Addison e Steele, fondatori dello “Spectator”, il più moderno dei giornali settecenteschi, sostenevano di essere devoti fruitori di tè. Per loro la bevanda li galvanizzava ma, soprattutto, permetteva loro di riconoscersi in quella cerchia di intellettuali che si ritrovavano nei caffè londinesi o parigini e bevevano tè.

La cerimonia del tè giapponese, la nascita e le sue tre fasi

La cerimonia del tè giapponese parte dall’arte del tè, che conobbe diverse epoche e diverse scuole. Si riconoscono tre principali periodi o fasi nella preparazione del tè: bollito, sbattuto e infuso. Noi moderni, naturalmente, apparteniamo a quest’ultima categoria, ma ci vollero diversi secoli affinché questa metodologia si consolidasse. 

La pianta del tè è originaria della Cina meridionale e, inizialmente, veniva utilizzata nella botanica e nella medicina cinese. Durante il IV e V secolo, divenne una bevanda molto apprezzata dai popoli del Catai. Viene ricordata e descritta in diversi poemi dell’epoca come la bevanda degli imperatori, che a quel tempo la elargivano ai loro funzionari – i famosi “mandarini” – come dono per i loro servigi. In questo periodo, le foglie venivano cotte a vapore e impastate e bollite insieme a riso, zenzero, scorze d’arancia, spezie, latte, sale e talvolta cipolle. Il modo di preparare e bere il tè era ancora rudimentale. 

In seguito, durante la dinasta Sung, nel XII secolo circa, il iniziò ad essere sbattuto. Le foglie, macinate in un piccolo mortaio di pietra, venivano ridotte a polvere finissima. Il composto quindi veniva unito all’acqua bollente e poi sbattuto con un frustino. A questo punto, il sale venne definitivamente bandito e la preparazione del tè iniziò ad avvicinarsi ancora di più a quella moderna. 

È nel XV secolo che prende vita la terza scuola del tè, quella dell’infusione. Questa scuola porta alla creazione della modalità contemporanea di degustazione del tè, quella che noi ancora oggi beviamo tè infusi. Inoltre dà anche vita alla Cerimonia del Tè vera e propria, che raggiunge la sua forma definitiva e si trasforma in “usanza autonoma e secolarizzata” (Kazuko Okakura). 

Chado, ovvero la cermonia del tè giapponese

Con Chado, ricorda Sandri Fioroni, si intende la Via del tè, ovvero la Cerimonia del tè consolidata in una delle tre scuole. Protagonisti della cermonia del tè sono i tre tè verdi per eccellenza. Il Matcha, il tè verde in polvere dal sapore ricco, da servire a 80°, rigorosamente in una tazza giapponese e mai in una occidentale. Il Gyokuro, il tè più raffinato e ricco per aroma, servito ad una temperatura di 50/60°. Infine il Sencha, il più amato e consumato dai giapponesi, caratterizzato da un profondo colore verde. 

Ma dove viene consumata la cerimonia del tè giapponese? Cominciamo sottolineando la natura zen della cerimonia stessa. Molti studiosi parlano di uno “spazio non spazio”, soprattutto citando un celebre passo in cui Sakyamuni, meglio conosciuto come Buddha. Egli aveva ospitato 84 mila discepoli nella sua casa del tè, segno chiaro di come lo spazio, nel rituale, sia superfluo e secondario. Una cerimonia che si basa sulla wabi-cha, la ricerca di semplicità e sobrietà tipiche della concezione buddista e soprattutto zen. 

Ma anche naturalezza, che l’occhio incontra ancora prima di entrare nella Sukiya, la stanza del tè, all’esterno, in quello che prende il nome di roji ed è il sentiero che porta l’ospite all’ingresso della stanza. Durante questo percorso, l’ospite si prepara alla cerimonia, depurando l’animo grazie alla naturale disposizione della natura e dei suoi attributi. La stanza, o padiglione, che ospita la cerimonia del tè, precedentemente pulita a fondo dal Maestro dei Tè – solo i Maestri possono ufficiare la cerimonia – consiste in una stanza prevalentemente spoglia, che contiene un tavolo su cui sono poggiati teiera, tazze e il mestolo.

Nulla è lasciato al caso e, lontano dall’idea occidentale della simmetria, tutti gli oggetti sono diversi fra loro, nell’ottica asimmetrica tipicamente orientale che vuole un continuo stimolo visivo per lo spettatore. La kama (teiera) è bianca e tondeggiante, le chawah (tazze) non potranno essere uguali, ma saranno allora scure e con spigolose. Tutto dovrà dare l’impressione di essere leggermente liso, sfiorato dal tempo, con la sola eccezione del mestolo, che dovrà essere pulito a fondo. I zabuton, piccoli cuscini, sono posti a terra, sopra i tatami. I fiori, molto importanti, sono posizionati nella tokonoma, la parte più sacra della sala, in un semplice ikebana (disposizione tipica giapponese di fiori recisi).

L’ospite entrerà nella stanza, un ambiente in genere piccolo, di 18 o 24 metri quadrati, attraverso una porticina molto bassa, talvolta un quadrato inciso nel muro, che lo obbligherà ad abbassarsi e talvolta rannicchiarsi, chiaro simbolo di umiltà. All’interno dell’ambiente non saranno presenti più di 5 persone, che manterrano il silenzio per la maggior parte del rituale, rincorrendo anche in questo senso l’essenzialità della Cerimonia del Tè. Una breve conversazione, in cui l’ospitante ringrazia il Maestro del Tè e chiede spiegazioni sugli utensili utilizzati, rompe il silenzio. La parola riporta all’hinc et nunc, al mondo quotidiano, e il rituale abbandona la stanza. La Via del tè è stata percorsa. 

Glass Tea House Mondrian

La Glass Tea House Mondrian, realizzata da Hiroshi Sugimoto, è stata una mostra presentata da Le stanze del vetro progettata con installazioni site specific e includendo artisti di fama mondiale.

Hiroshi Sugimoto. Glass Tea House Mondrian © Hiroshi Sugimoto + New Material Research Laboratory. Courtesy: LE STANZE DEL VETRO. Foto: Enrico Fiorese

L’opera, inspirata alla tradizione della cerimonia del tè giapponese, presentava due elementi principali, un cubo di vetro e un giardino che lo ospita. Il giardino si componeva con un percorso che comprendeva una lunga vasca d’acqua in mosaico di vetro che conduceva il visitatore al culmine del padiglione, ovvero all’interno di un cubo di vetro. Fondazione Bisazza aveva realizzato la piscina. La casa da tè in vetro ha visto per la realizzazione Asahi Building Wall Co.Ltd, azienda leader nel settore per soluzioni di strutture in vetro. 

Una curiosità è che tutti gli oggetti che erano utilizzati per la cerimonia del tè sono stati disegnati da Hiroshi Sugimoto e prodotti direttamente da artigiani di Kyoto. Per l’occasione la vetreria Simone Cenedese aveva realizzato in edizione limitata una coppa in vetro particolare.

Hiroshi Sugimoto. Glass Tea House Mondrian © Hiroshi Sugimoto + New Material Research Laboratory. Courtesy: LE STANZE DEL VETRO. Foto: Enrico Fiorese

Elena Cirla