Poco lontano dal famoso Giardino dei Tarocchi, a Capalbio, un giardino semplice, sobrio, sostenibile e nello stesso tempo attraente. Sostenibile in quanto è un giardino che ha bisogno di ben poca acqua per sopravvivere, per il quale l’estate può essere un’opportunità e non una punizione. Il vero leitmotiv sono le piante di macchia, quelle che una volta dominavano il paesaggio e che la bonifica asportò, una specie di ritorno all’origine: se ben ristabilite sul posto, le piante di macchia non hanno bisogno di nulla, amano soltanto essere lasciate tranquille su un terreno possibilmente calcareo. Come tutte le piante giovani, vanno abituate al posto e sostenute con vigore: l’acqua va data abbondante all’inizio e con la dovuta sapienza durante il primo anno e in certi casi anche durante il secondo…

Il “nostro” è un giardino da non lavoro: sono sufficienti due tagli all’anno per tenere sotto “forma” le piante di rosmarino, di fillirea e di lentisco. I teucrium invece, come la lavanda, vanno tagliati da tre a quattro volte all’anno, data la loro ben nota vivacità. Qualche rosa del Bengala (Rosa chinensis “Sanguinea”) e sulle pergole alcune rose Alberic de Barbier compongono con sobrietà un giardino semplice e maturo.
La macchia domata è quella più vicino alla casa, è quella che non deve invadere e che deve cambiare di volume molto lentamente per ragioni di intensa convivenza. Man mano che ci si allontana la macchia è meno controllata, quasi non si lasciasse soggiogare dal taglio delle forbici. È un’apparente vittoria, il frutto di una concordata convivenza e soprattutto il palese armistizio per una pace di lavoro: è molto importante non essere vittime di un giardino e delle sue insistenti pretese di governo…
Il lasciare andare la macchia per conto suo è di per sé un successo di grande bellezza: i lecci, gli oleandri, gli allori, i corbezzoli e gli stessi melograni fanno a gara nell’affermare il primato della natura sull’architettura. Una natura per niente naturale, una natura- giardino, voluta, piantata e cresciuta dall’uomo.

TESTO DI PAOLO PEJRONE / FOTO DI DARIO FUSARO