Dal 16 novembre 2023 al 1° aprile 2024, nei saloni dell’Appartamento del Doge di Palazzo Ducale di Genova sfilano alcuni tra i maggiori capolavori di una delle artiste più potenti della storia, dalla vita appassionante, ricca di colpi di scena, fallimenti e successi straordinari. È Artemisia Gentileschi, iconico esempio di tenacia e genialità, donna dalla vita tutt’altro che facile, segnata dalla prematura scomparsa della madre, dal contesto sociale che non le permette di affermarsi come pittrice, fino al traumatico stupro.

Ma, nonostante ciò, Artemisia è capace di emergere attraverso il suo indiscutibile talento artistico e il suo coraggio trasmettendo, attraverso le eroine protagoniste dei suoi quadri, il suo desiderio di riscatto e di affermazione all’interno di una società in cui le donne hanno un ruolo sottomesso e dove la pittura è una pratica raramente concessa al sesso femminile. La sua figura e i suoi dipinti hanno segnato così profondamente la storia dell’arte italiana che risuonano ancora prepotenti nel nostro tempo. La mostra, a cura dello storico dell’arte Costantino D’Orazio, propone un percorso suddiviso in 10 sezioni, tra vicende familiari appassionanti, soluzioni artistiche rivoluzionarie, immagini drammatiche e trionfi femminili e offre l’opportunità di vedere raccolti oltre 50 capolavori sparsi in tutta Europa e negli Stati Uniti, opere che permettono di delineare un ritratto preciso della personalità complessa di una delle artiste più celebri al mondo.

La mostra è promossa e organizzata da Arthemisia con Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, Comune di Genova e Regione Liguria e rientra nell’ambito delle iniziative di Genova Capitale Italiana del Libro 2023. La mostra vede come sponsor Generali Valore Cultura, special partner Ricola, media partner Il Secolo XIX e mobility partner Frecciarossa Treno Ufficiale. La mostra rientra nel progetto “L’Arte della solidarietà” realizzato da Arthemisia con Komen Italia, charity partner della mostra. Unire l’arte con la salute, la bellezza con la prevenzione: è questa l’essenza di un progetto che vede il colore rosa della Komen Italia fondersi con i capolavori esposti nelle mostre. Nel concreto, una parte degli incassi provenienti dalla vendita dei biglietti di ingresso della mostra verrà devoluta da Arthemisia per la realizzazione di specifici progetti di tutela della salute delle donne. Con questa partnership Komen Italia si prepara al grande evento nazionale per festeggiare il suo 25esimo anno della “Race for the cure” il prossimo maggio 2024. Il catalogo, edito da Skira e a cura di Costantino D’Orazio, presenta i testi di Pietrangelo Buttafuoco, Riccardo Lattuada, Anna Orlando, Yuri Primarosa, Vittorio Sgarbi e Claudio Strinati.

La mostra

Nella prima metà del Seicento, quando il mondo dell’arte è ancora dominato dagli uomini, Artemisia Gentileschi è stata la protagonista di una carriera eccezionale, che l’ha portata a lavorare per alcune delle corti più prestigiose d’Europa: Firenze, Napoli e Londra, solo per citarne alcune. È stata omaggiata da medaglie, ritratti dipinti da pittori illustri, poemi e incisioni. Eppure la sua fama oggi è dovuta soprattutto alla violenza carnale che ha subito nel 1611, ad opera di un pittore senza legge, Agostino Tassi. Sarà soltanto grazie al suo talento e alla sua eccezionale personalità che Artemisia riuscirà a scrollarsi di dosso i pregiudizi nei suoi confronti e dedicarsi a costruire un percorso artistico eccezionale. Questa mostra, promossa e organizzata da Arthemisia con Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, Comune di Genova e Regione Liguria, vuole ricostruire le vicende che hanno funestato la vita di Artemisia, ma anche restituirle il merito di aver contribuito in maniera profonda al rinnovamento della pittura, sulle orme di Caravaggio.

Perché una mostra di Artemisia proprio a Genova?

Oltre a Roma, la Superba è la città che accomuna i principali artisti di questa esposizione: esattamente quattrocento anni fa Orazio Gentileschi si trova a Genova, dove lascia alcune tra le sue opere più significative, mentre Agostino ha lavorato qui nel 1605 per alcuni mesi, lasciando un segno indelebile nella costruzione di formidabili prospettive. Anche se non esistono documenti che possano confermare un soggiorno di Artemisia a Genova, l’eco del suo lavoro e alcune sue opere giungono nella Superba, così come i dipinti realizzati da suo padre in città saranno copiati successivamente dalla figlia. Questa mostra, a cura di Costantino D’Orazio, intreccia vicende umane, rivoluzioni pittoriche, aneddoti e pensieri di una vivace ed intraprendente comunità artistica, che nel primo Seicento ha attraversato l’Italia e si è avventurata in Europa, diffondendo le novità caravaggesche, lo spirito della Controriforma e uno sguardo sulla realtà del tutto inedito. Ne hanno giovato molti pittori genovesi, come Domenico Fiasella – che conosce e lavora con Orazio – Gioacchino Assereto e Bernardo Strozzi, che in questa mostra, grazie al lavoro di Anna Orlando, aprono una interessante finestra sul panorama genovese dell’epoca, in perfetta corrispondenza con le novità che stanno esplodendo a Roma.

Prima sezione – Giovinezza e maturità di Artemisia

La carriera di Artemisia è aperta e chiusa dallo stesso soggetto: la scena biblica in cui Susanna, mentre fa il bagno, viene avvicinata da due uomini – un vecchio e un giovane – che la minacciano di diffamarla in pubblico se non accetta di giacere con loro. La storia ha un lieto fine, perché il profeta Daniele li smaschererà, ma i pittori sono sempre stati interessati a rappresentare il momento più drammatico, quello della proposta indecente e del rifiuto da parte della ragazza. Il dipinto di Pommersfeld, datato 1610, è considerato il primo quadro di Artemisia, realizzato sotto la supervisione del padre Orazio mentre la versione di Brno (1649) si inserisce nell’ultima parte della carriera della pittrice: l’inizio e la fine sono segnati da una donna che subisce una violenza, deve difendersi da un’accusa infamante e si ritrova sola a combattere contro gli uomini. Una coincidenza straordinaria, una metafora dell’intera vita di Artemisia, moderna Susanna, che in questi due quadri dimostra come evolve il suo stile nel corso di quasi quarant’anni di attività, da Roma a Napoli. La sua tavolozza diventa sempre più cupa, l’organizzazione dello spazio sempre più consapevole, la rappresentazione dei corpi più sicura. La luce, dalle tonalità tenui prese in prestito da suo padre Orazio, lascia il posto ai contrasti in chiaroscuro assorbiti da Caravaggio, il maestro di cui nel corso del tempo Artemisia diventerà l’erede femminile più autorevole.

Questa sezione offre al pubblico la possibilità di abbracciare in uno sguardo l’intero percorso artistico di Artemisia, dagli esordi alla maturità, attraverso il confronto tra due capolavori realizzati in fasi diverse della sua vita: la Susanna e i vecchioni (1610) delle Kunstsammlungen Graf von Schönborn di Pommersfelden, prima opera documentata, datata e firmata da Artemisia, dove si può rintracciare ancora l’intervento di suo padre Orazio, e la Susanna e i vecchioni (1649 circa) della Moravská Galerie di Brno in Repubblica Ceca, dipinto dalla sola Artemisia 30 anni dopo, quando la protagonista della scena manifesta un’espressione più consapevole e capace di opporsi alla colpevole seduzione maschile.

Seconda sezione – Il talento delle donne tra ‘500 e ‘700

Il XVI secolo rappresenta un momento di svolta nell’attività delle artiste. Se ancora nel secolo precedente le pittrici era soprattutto monache che dipingevano all’interno dei conventi, nel Cinquecento emergono donne che riescono a competere alla pari con i loro colleghi maschi. Artemisia, che si autoritrae con la corona di alloro in segno di trionfo, si trova perfettamente al centro di una storia che vede Properzia de’ Rossi accedere presso il cantiere pubblico più prestigioso di Bologna grazie alla forza della sua scultura, Sofonisba Anguissola ricevere la nomina a pittrice di corte presso il Re di Spagna e Lavinia Fontana ottenere l’incarico di dipingere il ritratto ufficiale del papa. Le loro carriere, iniziate spesso grazie alla cura di padri artisti o mercanti, non hanno nulla da invidiare a quelle di tanti loro colleghi uomini, eppure inaugurano uno sguardo nuovo sulla realtà: più intimo, sofisticato e capace di investigare le emozioni. È il caso della delicatezza con cui Rosalba Carriera dipinge una ragazza che trattiene tra le braccia una colomba: il suo sguardo innocente, sorpreso e disarmante, fa pendant in questa sala con quello di Sofonisba (presente in mostra l’Autoritratto alla spinetta del Museo di Capodimonte), che grazie ai suoi autoritratti conquisterà il plauso di tutti i più grandi artisti del suo tempo. Come Angelika Kauffmann, che firmando l’atto di fondazione della Royal Academy of Arts nel 1768 diventa un’autorità assoluta in tutta Europa.

Terza sezione – Artemisia alla bottega del padre

«Mi ritrovo una figliuola femina con tre altri maschi, e questa femina, come è piaciuto a Dio, havendola drizzata nella professione della pittura, in tre anni si è talmente appraticata, che posso ardir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere, che forse principali Mastri di questa professione non arrivano al suo sapere». Con queste parole d’elogio il 3 luglio 1612 Orazio presenta sua figlia Artemisia alla Granduchessa di Toscana Cristina di Lorena. Non è difficile immaginare la ragazza, allora diciannovenne, seguire i suggerimenti del padre nelle case in cui la famiglia Gentileschi vive e lavora. Ne cambiano almeno quattro: da via del Babuino (1610) passano a via Margutta (1611), per poi stabilirsi pochi mesi a via della Croce (1611) – dove avverrà la violenza carnale – e finire a Borgo Santo Spirito (1612). In ogni indirizzo abitano un appartamento modesto, in cui Orazio riesce sempre a ricavarsi una stanza per dipingere: lì impartisce ad Artemisia i primi rudimenti del mestiere, dalla miscela dei pigmenti alla stesura del colore sulla tela, dalla gestione della luce all’invenzione di morbidi panneggi. Vivendo segregata in casa, Artemisia diventa anche la modella prediletta di Orazio. La vediamo bambina mentre suona la spinetta nelle vesti di Santa Cecilia, ormai ragazza avvolta da uno splendido mantello che ne fa una Sibilla: lei impara molto velocemente e coglie ogni sfumatura del mestiere del padre nelle sue Madonne. Il suo è un talento di famiglia.

Padre e figlia sono qui raccontati attraverso confronti serrati tra tele con lo stesso soggetto, così da capire come la ragazza sia stata capace di sviluppare per talento e maestria un proprio linguaggio, che l’ha resa la pittrice più famosa del suo tempo, tanto da essere ammessa, prima donna in assoluto, all’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze (1616). Un rapporto ossessivo, controverso, simbiotico e ambiguo ma comunque fonte di ispirazione reciproca, come dimostrano i numerosi capolavori che Orazio Gentileschi ha dipinto, usando Artemisia come modella: tra gli altri, in mostra saranno esposti la Madonna con bambino dormiente in un paesaggio dei Musei di Strada Nuova – Palazzo Rosso di Genova, dove vediamo un’Artemisia neonata, la Santa Cecilia suona la spinetta e un angelo della Galleria Nazionale dell’Umbria, dove Orazio ricorda il volto di Artemisia a circa dieci anni, e la Sibilla del Museum of Fine Arts di Houston, dove Artemisia è una ragazza ormai matura. Il Casino delle Muse, capolavoro di Orazio Gentileschi e Agostino Tassi.

La quarta sala offrirà ai visitatori un’esperienza inedita: la ricostruzione virtuale e immersiva di un raro gioiello d’arte, mai aperto al pubblico. Un luogo segreto di Roma, una dimora ancora oggi privata: il Casino delle Muse di Palazzo Pallavicini Rospigliosi, voluto sul Quirinale dal Cardinal Scipione Borghese nel 1611. Affrescato a quattro mani da Orazio Gentileschi e Agostino Tassi, vede la presenza speciale e insospettabile di Artemisia. Il primo pittore, specializzato nelle figure, il secondo nelle quadrature, realizzano un vero capolavoro d’arte barocca. La scena rappresentata è un vivace concerto, la cui orchestra è composta da sole donne: un fatto assai raro all’epoca, quando la musica, come l’arte, è una questione soprattutto maschile. Ancor più strana, la presenza di una giovinetta che nulla ha a che vedere con le suonatrici. Viso rotondo, capelli raccolti a mala pena, posa civettuola: in quel volto Orazio avrebbe ritratto la sua amata figlia Artemisia. Qui, la sua presenza potrebbe assumere un significato preciso perché pochi mesi prima di questo affresco, Agostino si è macchiato della terribile violenza su Artemisia. Oggi può sembrarci strano, ma mentre sta lavorando fianco a fianco con lui al Casino, Orazio spera ancora che Tassi sposi la ragazza per riparare all’oltraggio. La sua immagine su questo soffitto potrebbe costituire un messaggio rivolto al giovane collega. Sappiamo bene come finirà la vicenda, ma il sospetto che su quel ponteggio si sia discusso della questione è forte e rende più affascinante questo capolavoro.

Quarta sezione – Le donne minacciate di Artemisia

In questa sala si possono ammirare tre marine che si stagliano dietro splendide architetture, dipinte da Agostino Tassi. Sono la prova del suo eccezionale talento, che si esprime soprattutto nella composizione di paesaggi ed edifici costruiti con una straordinaria perfezione ed un guizzo tipico del genio barocco. Purtroppo la sua abilità tecnica convive con un carattere inquieto, un’attitudine alla rissa, un’arroganza che lo fa sempre sentire al di sopra della legge. Forte dei suoi potenti protettori, Tassi commette i più turpi reati, fino ad esercitare violenza su Artemisia Gentileschi, il 6 maggio 1611. Artemisia e Agostino si conoscono grazie a Orazio, che affianca il giovane pittore alla figlia come maestro di prospettiva. L’incontro tra i due sfocerà terribilmente nello lo stupro della ragazza da parte del Tassi e condizionerà traumaticamente la vita della pittrice, provocando dramma e dolori da cui lei saprà riscattarsi soprattutto grazie alla sua arte. Dopo lo stupro, Artemisia si troverà costretta ad accettare la prospettiva di un matrimonio riparatore, come Betsabea, che difficilmente avrebbe potuto rifiutare le attenzioni di re David, come Cleopatra, che sceglie di suicidarsi quando vede spegnersi il suo sogno d’amore e potere, come Francesca, che dovrà scontare all’inferno l’essersi abbandonata alla passione. Sono donne fragili, prigioniere di relazioni che non hanno saputo governare, al pari di Artemisia, ingannata dalle false promesse di un uomo che dichiara di amarla, ma finirà per rovinarle la reputazione. Le donne di Artemisia riscuoteranno un tale successo di pubblico, da meritare numerose repliche nei secoli successivi, come nel caso dell’arazzo degli Uffizi, realizzato dieci anni dopo la morte della pittrice e restaurato in occasione della mostra. Il percorso prosegue attraverso una sala, dove il visitatore troverà esposti gli Atti originali del processo per stupro del 1612, eccezionalmente concessi dall’Archivio di Stato di Roma, e potrà ricostruire tutte le fasi della vicenda attraverso l’ascolto e la lettura dai fogli antichi delle parole di Artemisia, la difesa di Agostino e i racconti dei testimoni, in un ambiente dove si respirerà l’atmosfera di una città percorsa dal pettegolezzo.

Quinta sezione – La vendetta di Artemisia

Chi sostiene che Artemisia dipinga più volte nella sua carriera la scena in cui Giuditta decapita Oloferne perché vuole vendicarsi in questo modo della violenza subita da Agostino Tassi, non rende sufficiente merito al suo talento e alla sua grandezza. Questo soggetto è uno dei più diffusi all’inizio del Seicento e Artemisia risponde con grande originalità alle richieste dei collezionisti. Giuditta, giovane ebrea di Betulia, città biblica della Palestina, compie il gesto eroico di uccidere il condottiero assiro Oloferne, che sta assediando il suo popolo. Con la scusa di proporre un’alleanza, viene accolta nell’accampamento nemico: durante il banchetto organizzato in onore dell’ospite, Oloferne si ubriaca e cade in un sonno profondo. A quel punto, con l’aiuto della fantesca Abra, Giuditta decapita l’uomo con la sua stessa spada, nascondendo la sua testa in un panno per mostrarla poi come trofeo al suo popolo, ormai liberato. Artemisia riesce a rappresentare la scena insistendo sulla tensione che anima le due donne nel compiere questa impresa, che all’epoca conquista i collezionisti perché sovverte il tradizionale rapporto tra la forza maschile e la fragilità femminile. Nello sguardo di Artemisia, Giuditta è più decisa e fiera rispetto a come sia stata dipinta da altri grandi pittori del suo tempo, come suo padre Orazio, al quale si ispira in una celebre versione della vicenda. Elisabetta Sirani a Bologna raccoglierà l’eredità di Artemisia, dedicando gran parte delle sue tele a donne coraggiose, come Timoclea, che spinge in un pozzo un comandante dell’esercito di Alessandro Magno, dopo essere stata violentata da lui. Storie terribili, a cui le pittrici del Seicento si ribellano con la forza della loro pittura. Sono dunque qui esposti due dei capolavori della pittrice, Giuditta e Oloferne, della Fondazione Carit di Terni, e Giuditta e la sua ancella con la testa di Oloferne, del Museo di Capodimonte, entrambi accostati e messi a confronto con la famosa Giuditta e Oloferne del padre Orazio Gentileschi, proveniente dai Musei Vaticani. In Giuditta e Oloferne, opera di grande violenza, c’è chi legge il desiderio di vendetta della donna contro il suo stupratore. In Giuditta e la sua ancella si può invece trovare la sua delusione per il tradimento della governante Tuzia che assecondò la violenza e accusò in tribunale Artemisia di aver provocato le attenzioni di Agostino. Questi dipinti portano la testimonianza bruciante di un personale percorso di rivincita, sono il campo di battaglia in cui questa donna-artista combatte gli uomini che hanno provato ad annientarla. La sentenza che conclude il processo, pur riconoscendo Agostino colpevole della violenza, non contribuiscono a migliorare una reputazione ormai compromessa, che Artemisia riuscirà a migliorare soltanto grazie al suo eccezionale talento e alla forza d’animo che guiderà la sua carriera, costretta a continuare fuori da Roma.

Sesta sezione – Il caravaggismo a Genova

La sezione – a cura di Anna Orlando – è dedicata alla scena genovese dei primi del Seicento. Sono passati 400 anni da quando l’arrivo di Orazio Gentileschi a Genova provoca un cambiamento epocale nello stile degli artisti del territorio, che assorbono i contrasti di luce caravaggeschi e si dedicano al racconto di soggetti drammatici molto frequentati da Artemisia. Il caravaggismo a Genova è stato oggetto di indagini approfondite in anni recenti e questa sala presenta una piccola ma significativa antologia di artisti e opere, che può offrire un sintetico panorama su questa straordinaria stagione pittorica. Essa copre diversi decenni del Seicento, dal 1610 al 1650 circa, e interessa due generazioni di artisti. All’inizio del XVII secolo Genova è un grande porto e una indiscussa capitale finanziaria: i genovesi, aristocratici di censo  e non di origine feudale, viaggiano, commerciano e prestano denaro. Abili mercanti e banchieri, entrano in contatto con le grandi potenze e con le corti d’Europa e si arricchiscono enormemente. La Superba diventa così anche una capitale artistica, dove giovani entusiasti collezionisti creano una condizione fertile per la nascita di una grande scuola pittorica e attraggono artisti da ogni dove. Non solo dalle Fiandre – si pensi a Rubens nel primo decennio e a Van Dyck nel secondo – ma anche da tutta Italia. Orazio Gentileschi vi soggiorna dal 1621 al 1625 e, sebbene Artemisia non vi sia affatto documentata, le sue opere sono presenti nelle raccolte più importanti. La loro interpretazione del caravaggismo, in bilico tra realismo e classicismo, fornisce agli artisti locali uno stimolo notevole. Oltre allo stile, l’impatto sulla scuola locale del caravaggismo si ha anche nella scelta dei soggetti: la selezione di opere genovesi in questa sala lo dimostra con il San Giovannino di Strozzi e le varie versioni, più o meno cruente, dell’iconografia di Giuditta e Oloferne.

I caravaggeschi genovesi

L’unico genovese a conoscere Caravaggio in vita è stato, a quanto si sappia, Domenico Fiasella, che arriva a Roma intorno al 1606 dalla natia Sarzana, la cittadina posta tra Liguria e Toscana. Non è un caso se nella sua bottega genovese (aperta dopo il 1616) viene accolto il figlio di Orazio Gentileschi, Francesco. Il caravaggismo di Fiasella è il più autentico e ha inciso non poco sulla scuola locale. Il cognato Giovanni Battista Casoni ne emula lo stile e predilige i suggestivi effetti di una luce artificiale che sono al centro della ricerca dei caravaggeschi. All’inizio del 1610 Bernardo Strozzi è a Milano, dove vede la celebre “Canestra” di Caravaggio del Cardinale Federico Borromeo (ora al Museo Diocesano) poco dopo la sua realizzazione (1607). Presto il Cappuccino andrà anche a Roma e negli anni successivi dimostra di essere tutt’altro che impermeabile alla nuova arte realista del Merisi, aderendo alla sua nuova poetica della luce. Nel terzo e quarto decennio del Seicento altri pittori genovesi si confrontano con la nuova parlata che prende avvio da Caravaggio. Tra loro vi è anche un vero maestro, Gioacchino Assereto, capace di declinare il naturalismo caravaggesco in maniera assai personale e anche graditissima allora come oggi.

Orazio a Genova

Il fratello maggiore di Orazio, Aurelio Lomi, era stato a Genova dal 1597 al 1604 e aveva lavorato, tra gli altri, per la famiglia Sauli. Il venticinquenne aristocratico Gio. Antonio Sauli, grande finanziere con interessi a Milano, Napoli e Roma, si trova nella Città Eterna nella primavera del 1621. Lì vede le opere del Gentileschi e ne rimane folgorato al punto da volerlo a tutti costi a Genova. Poco dopo il pittore arriva in città ed esegue per lui alcuni tra i suoi massimi capolavori: tra gli altri, il Lot e le figlie e la Danae, oggi entrambi al Getty Museum di Los Angeles. Un nipote del Sauli, Antonio II Grimaldi Cebà, è il probabile committente della pala con l’Annunciazione oggi nella cappella di famiglia della chiesa di S. Siro (1622 circa). Per Marcantonio Doria, il committente dell’ultimo quadro di Caravaggio (il Martirio di sant’Orsola del 1610), affresca nel 1624 il piccolo «casino» della sua villa di Sampierdarena (distrutto). Orazio può vantare dunque a Genova di clienti altolocati, ma ambisce a diventare pittore di corte, con uno stipendio fisso: cerca di convincere Carlo Emanuele I di Savoia, inviandogli da Genova nel 1623 la versione dell’Annunciazione oggi alla Galleria Sabauda. Allo scoppio della guerra tra la Repubblica e i Savoia, nella primavera del 1625, o poco prima, Orazio lascia Genova. Vi resta il figlio Francesco, accolto nella bottega dell’amico pittore Domenico Fiasella. Nessun documento attesta invece la presenza di Artemisia, di cui però era già giunta la fama, seguita dall’arrivo di alcuni suoi capolavori nelle quadrerie della Superba.

Settima sezione – Orazio Gentileschi e Roma criminale

Nei primi del Seicento, molti dei processi che si celebrano nei tribunali romani vedono il coinvolgimento di artisti. I pittori usano qualsiasi mezzo, anche illecito, per diffamare i propri colleghi ed ostacolare le loro carriere, arrivando anche ad assalirli e sfregiarli. I quadri esposti in questa sala sono la testimonianza più fulgida dello straordinario talento di Orazio Gentileschi, che troviamo coinvolto in alcuni di questi processi, soprattutto a fianco di Caravaggio. Con lui per alcuni anni collabora, come è avvenuto mentre sta dipingendo il San Francesco e l’Angelo, da lui coglie alcune atmosfere, come si nota nell’atteggiamento malinconico del David al cospetto della testa del gigante Golia. Ma forse è nella Salita al Calvario che Orazio rielabora l’eredità di Caravaggio, con il taglio ravvicinato che deriva dal metodo inaugurato dal Merisi. In questa comunità di maestri Antiveduto Gramatica svolge un ruolo fondamentale: è sua una delle botteghe dove i giovani Orazio e Caravaggio hanno mosso i primi passi nella professione di pittore, lasciando poi il loro segno indelebile in molte chiese e palazzi di Roma.

Ottava sezione – Dopo Roma, Artemisia a Firenze

Due giorni dopo l’emissione della sentenza di condanna contro Agostino Tassi, il 29 settembre 1612, Artemisia sposa Pierantonio Stiattesi, fratello di Giovanbattista, il notaio che ha sostenuto la famiglia Gentileschi durante il processo e presentato ai giudici le prove della colpevolezza di Agostino (alcune lettere in cui il pittore confessa la violenza). Con l’aiuto di Pierantonio, che ha il compito di gestire i rapporti con i clienti e firmare i contratti, Artemisia a Firenze lavorerà per il Granduca Cosimo II e per alcuni tra i più influenti personaggi della città, come Michelangelo Buonarroti il Giovane, pronipote del celebre maestro. In città la pittrice apre una piccola bottega e firma i suoi dipinti ‘Artemisia Lomi’, utilizzando il cognome dei parenti di suo padre Orazio. Gli archivi fiorentini conservano molte sue lettere ai committenti, scritte soprattutto per chiedere anticipi di denaro, prestiti e aiuti per risolvere una situazione finanziaria spesso difficile. Nel tempo si viene a scoprire che questi problemi economici derivano dai debiti che suo marito Pierantonio contrae di continuo con numerosi fornitori di colori, di tele e materiali, a causa di una pessima gestione domestica. Malgrado tali questioni, Artemisia riesce ad affermarsi come una delle artiste più richieste della città, frequenta la corte dei Medici e nel 1616 è la prima donna ad essere ammessa alla prestigiosa Accademia delle Arti del Disegno, che si rivelerà fondamentale per consolidare la sua fama di artista e per risolvere alcune delle cause che la famiglia Stiattesi dovrà affrontare, a causa delle denunce dei creditori. Dei quattro figli che Artemisia dà alla luce a Firenze – Giovan Battista (1613), Cristofano (1615), Prudenzia Palmira (1617) e Lisabella (1618) – soltanto Prudenzia sopravvive e parte con i genitori alla volta di Roma alla fine del 1620. Artemisia lascia dietro di sé la reputazione di una grande artista, ma anche il rammarico di non aver consegnato un dipinto ordinato dal Granduca e senza aver saldato alcuni debiti contratti dal marito.

Le eroine di Artemisia

Dopo il celebre processo, per oltre quarant’anni Artemisia dipinge soprattutto figure femminili protagoniste di vicende storici e biblici senza sosta: Giuditta, Cleopatra, Minerva, Maddalena, Dalila, Susanna sono le sue eroine, forti, a volte violente, indipendenti, sicure di sé, sensuali. In realtà, molte si ispirano a sè stessa. Le sue caratteristiche fisiche compaiono in molte dei suoi personaggi, come tanti storici hanno voluto riconoscere nel tempo. Le cosiddette femmes fortes (donne forti) sono un soggetto molto amato in Europa all’inizio del Seicento. Forse perché sono ormai tanti i libri che affrontano la querelle des femmes, la disputa sul merito delle donne, o forse perché le artiste donne sono sempre più affermate, ma in ogni collezione è facile trovare dipinti che ritraggono un’eroina del passato. Le femmes fortes sono di solito donne di alto rango che compiono imprese memorabili, personaggi che contraddicono il pregiudizio nei confronti della debolezza femminile e dell’inferiorità della donna rispetto all’uomo. Attingendo a figure che appartengono a religioni ed epoche diverse, Artemisia – tra Firenze e Napoli – ritrae Cleopatra, la regina che compie il drammatico suicidio dopo la morte di Marco Antonio piuttosto che accettare di essere catturata dai Romani, e Maddalena, colta nel momento più intenso della sua conversione, pronta a strapparsi una collana e rifiutare gli strumenti della bellezza terrena. In questa galleria di eroine rientrano anche le iconografie che Artemisia attribuisce alla dea Minerva, elegante condottiera che brandisce lancia e scudo in un prezioso abito scollato, e un ritratto femminile dalla posa fiera e volitiva. Oltre al coraggio e alla tenacia, c’è un altro elemento che accomuna queste donne dipinte da Artemisia: sono quasi tutte il suo autoritratto.

Nona sezione – Sansone e Dalila

Ecco un’altra vicenda che mostra un uomo forte soggiogato dall’astuzia di una donna, tema molto frequente nell’opera di Artemisia Gentileschi. La vicenda di Sansone e Dalila è contenuta nel libro biblico dei Giudici, dove si narra della straordinaria forza fisica che Sansone dimostra in numerose imprese: l’uccisione di un leone, la liberazione dalle funi, ma soprattutto la strage di mille Filistei, acerrimi avversari degli Ebrei. La potenza dell’eroe è il frutto della profezia di un angelo, che impegna Sansone a rispettare per tutta la vita il nazireato, una speciale consacrazione a Dio, che lo obbliga a rinunce e speciali rituali. Solo Dalila, una schiava filistea acquistata da Sansone, riesce ad indebolire Sansone dopo averlo convinto a rivelarle che il segreto della sua forza è nei capelli, mai tagliati dalla nascita per via del nazireato. Caduto vittima dei Filistei, l’uomo riuscirà a liberarsi solo quando i suoi capelli saranno ricresciuti. Artemisia dipinge più volte la scena più popolare di questa vicenda: quella in cui Dalila sta tagliando i capelli di Sansone. Mentre spesso l’eroe veste abiti all’antica, la donna indossa un abito scollato e un aspetto che insiste sulla sua bellezza e sulla sua capacità seduttiva, a cui l’uomo non ha saputo resistere. Gesti delicati ed espressione concentrata, la Dalila di Artemisia è ben diversa dalle versioni più concitate dipinte dai suoi colleghi contemporanei, come i liguri Domenico Fiasella e Gioacchino Assereto.

Decima sezione – L’eredità di Artemisia

Datato 1630 e firmato su un cartiglio ‘Artemisia Gentilescha’, l’Annunciazione è la prima sua commissione napoletana superstite e, senza dubbio, resta uno dei suoi dipinti più potenti. A Napoli Artemisia trova il coraggio di recuperare il suo cognome e si fa strada grazie ad una più consapevole aderenza al linguaggio caravaggesco, di cui diventa una delle interpreti più efficaci. Lo dimostra l’uso esteso del buio, solcato da squarci di luce che esaltano i protagonisti della scena. Una scelta che ben si inserisce al gusto napoletano, educato all’ammirazione dei dipinti di Carlo Sellitto e Battistello Caracciolo. Le maestose figure dell’angelo e della Vergine occupano l’intera composizione, fatta eccezione per il volo della colomba che si inserisce fra i due in uno squarcio di luce che irrompe nell’oscurità bruna del fondo. Maria in posizione superiore muove verso l’angelo da un alto scranno quasi nascosto dietro di lei: ha il volto brunito dal sole del Sud e una posa di aggraziata riverenza. Probabilmente non ha mai visto l’Annunciazione che Orazio ha dipinto a Genova (Basilica di San Siro) e per il Duca di Savoia, ma qui ripropone l’inconsueto rapporto tra Maria e Gabriele, nel quale si invertono le posizioni tra la ‘serva del Signore’ e il Suo messaggero. Ancora una volta, Artemisia si dedica all’esaltazione della grandezza di una donna, che ha compiuto una scelta estrema nella sua vita. La sua posizione, sempre dalla parte delle donne, è diventata una garanzia per i suoi committenti: in questo periodo Artemisia è entrata in uno dei circuiti più elitari del collezionismo europeo. È impegnata nella realizzazione di quadri per l’imperatrice Eleonora Gonzaga, suocera dell’infanta di Spagna Maria Anna d’Austria, che si trova a Napoli di passaggio proprio in quell’anno. Sono lontani gli anni in cui doveva pietire anticipi e prestiti ai suoi clienti. Ora è una pittrice autorevole, che saprà affermare con originalità e tenacia il caravaggismo in tutta Europa.

Undicesima sezione – Artemisia a Napoli

Dopo aver vissuto circa dieci anni a Roma, nel 1630 Artemisia si trasferisce a Napoli – città dalla straordinaria vivacità artistica – grazie ai rapporti che matura con Fernando Afán de Rivera, Duca di Alcalá e Viceré di Napoli, che nel 1629 ha acquistato tre dipinti della pittrice. Il suo stile, così vicino a quello di Caravaggio, affascina i collezionisti napoletani. Da Napoli, dove arriva con il fratello Francesco e la figlia Prudenzia, Artemisia intrattiene una fitta corrispondenza con Cassiano dal Pozzo, celebre erudito e suo appassionato committente, con il Duca di Modena Francesco I d’Este e con Ferdinando II de’ Medici, che ottengono suoi quadri, mentre Galileo Galilei e il nobile messinese don Antonio Ruffo diventano suoi consiglieri e mediatori. Se si esclude la parentesi inglese, quando nel 1638-39 si reca a Londra per lavorare con suo padre Orazio alla corte di re Carlo I – forse partecipa alla decorazione del Casino delle Delizie della regina Henrietta – Artemisia non si sposterà mai da Napoli, dove produrrà una grande quantità di tele con l’aiuto del fratello Francesco, che ha sostituito il marito Pierantonio nella gestione della bottega. Perse le tracce di Pierantonio, Artemisia riuscirà a maritare sua figlia Prudenzia nel 1636, sostenuta dai numerosi clienti che acquistano i suoi dipinti. Diventata la pittrice più celebre d’Europa, si circonda di allievi e collaboratori, dipingendo anche le uniche opere pubbliche della sua carriera per la Cattedrale di Pozzuoli. Muore intorno al 1653, in una data ancora non confermata: la sua tomba nella Chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini è andata perduta negli anni ’50 del Novecento, quando l’edificio è stato abbattuto per fare spazio ad un moderno condominio. Un evento eccezionale sarà l’esposizione dell’Allegoria dell’Inclinazione, che Artemisia dipinge per Casa Buonarroti di Firenze (in mostra dall’8 gennaio 2024): un autoritratto senza veli – che solo successivamente verrà coperto da un drappo dipinto – in cui la pittrice si rappresenta come l’ispirazione che ha guidato l’intera opera di Michelangelo. La tela, esposta dal 1616 sul soffitto di una delle sale di Casa Buonarroti, sarà esposta per la prima volta in una mostra fuori dalla sua sede naturale, grazie ad un prestito eccezionale: potrà essere ammirata da vicino, per apprezzare uno dei momenti più alti della tecnica di Artemisia, genio assoluto della pittura barocca. palazzoducale.genova.it