E’ un’emozione arrivare a Palermo, passeggiare lungo il porto vecchio per poi addentrarsi in pochi minuti nel cuore del centro storico fino a Piazza della Rivoluzione, al cui centro campeggia la statua del Genio di Palermo seduto sulla fontana, simbolo di quel sovrapporsi di una moltitudine di ‘storie’ di cui ci dà prova l’architettura, il cibo, la musica e la toponomastica.
Di quest’ultima è un esempio proprio la piazza della Rivoluzione, a lungo conosciuta come ‘Fiera Vecchia’, per via del mercato, la cui presenza è attestata già da alcuni documenti del XIII secolo presenti nell’Archivio della vicina chiesa della Magione.
E così come la piazza, anche alcune delle strade circostanti hanno veduto mutare le proprie denominazioni, fino all’epoca Risorgimentale, ad indicare la sconfitta dei Borboni. Proprio in queste strade, infatti, si ebbero i primi tentativi di rivolta pre-unitaria: dapprima nel 1820, poi di nuovo nel 1848, quando Giuseppe La Masa vi accorse per incitare i cittadini all’insurrezione che poi diede inizio alla rivoluzione durata 16 mesi.
Due anni dopo la piazza fu di nuovo teatro di un evento politico, la fucilazione di Nicolò Garzilli insieme ad altri rivoluzionari. Infine, il 27 maggio 1860 fu Garibaldi, entrato dalla vicina Porta di Termini, a fermarsi in questo luogo e, in questa occasione, la ‘Fiera Vecchia’ cambiò il suo nome in Piazza Rivoluzione. L’Eroe dei due Mondi, dopo il suo vittorioso ingresso in città, dette il nome anche all’arteria principale che dalla piazza si diparte e in cui si trova il palazzo dei Calefati di Canalotti, ‘Ajutamicristo’. E qui val la pena di soffermarsi ancora sulla toponomastica, dato che depone a favore dell’importanza del palazzo, il fatto che, prima degli eventi politici suddetti, la via Garibaldi prendesse il nome proprio di ‘Via del palazzo Ajutamicristo‘, e ciò a dispetto del fatto che questa stessa strada ospitasse numerosi altri palazzi pregiati (tra cui il palazzo Monterosato; il Palazzo Burgio di Villafiorita; il palazzo Naselli Flores).
Le porte di questa casa gentilizia palermitana mi si schiudono grazie ad un amico, Iacopo Bellizzi di San Lorenzo, tramite il quale entro in contatto con i Calefati di Canalotti. Mi accoglie Maria, l’ultima dei Calefati palermitani e poco dopo da una stanza attigua al salotto dove siamo sedute arriva la madre, Pia. Per un paio di ore, a dispetto di quegli stereotipi che fanno la Sicilia un luogo in cui le donne siano state storicamente sempre solo personalità secondarie, parrebbe questa essere, invece, una genealogia ‘tutta al femminile’. Parlando, infatti, emerge un racconto in cui proprio il femminile risulta preponderante: tra le personalità di famiglia dominano, infatti, dapprima Maddalena Calafato, importante badessa benedettina nota per aver fondato nel XVIII sec. un istituto per ragazze povere e la ancor più nota Beata Smeralda Eustochia Calafato, pure lei badessa, e, soprattutto, beatificata pochi decenni fa da Giovanni Paolo II. Il maschile fa capolino solo più tardi quando nella stanza dove mi trovo giunge per un saluto il Barone Vincenzo Calefati.
Il palazzo ‘Ajutamicristo’ è abitato dai Calefati da oltre quattro generazioni, da quando, cioè, un ramo della famiglia si è mosso dalla natia Caltanissetta, ed è un magnifico edificio, costruito al termine del XV secolo dall’architetto Matteo Carnalivari per conto di Guglielmo Ajutamicristo, barone di Misilmeri. Nel corso dei primi secoli di vita il palazzo, dato il suo pregio, ospitò personalità di rilievo, quali la regina Giovanna di Napoli nel 1500, l’imperatore Carlo V nel 1535 (perfino una lapide ricorda l’evento), Don Giovanni d’Austria nel 1571. In seguito, nel 1558, passò di proprietà ai Moncada, principi di Paternò, che vi accolsero l’Accademia dei Cavalieri, istituita nel 1567 dal Vicerè don Garcia di Toledo, e l’Accademia letteraria degli Accesi, fondata l’anno successivo dal nuovo Viceré Francesco Avalos, marchese di Pescara. Subentrati a questo impegnativo passato, i Calefati hanno rispettato il palazzo e non hanno modificato l’originaria struttura di impianto Quattrocentesco, poi arricchitasi con aggiunte architetturali del settecento palermitano, con cui fu realizzata, ad esempio, la sala da ballo e le pavimentazioni con maioliche di Caltagirone che ornano svariate stanze del palazzo.
Giungendo al presente, da circa un cinquantennio è la Baronessa, Pia, che introduce piccole ma costanti innovazioni, scostandosi con garbo e inventiva dalla rigidità delle tradizioni: modificando i colori della stanze e quelli delle porte, alleggerendo qua e là quel gusto severo e tradizionale che le avevano dato nei secoli gli antenati del marito e i precedenti proprietari. Nelle stanze così si alternano adesso bei rossi mattone, delicati azzurri, verdi pastello, tonalità lievi di rosa e crema. ‘In palazzi come questi non è semplice sovrapporre colore nuovo al vecchio’ mi dice Pia ‘dato che il colore era posto su pareti storiche, alle cui pregevoli irregolarità le maestranze del secolo scorso rimediavano con le pagine dei quotidiani con una tecnica, tipica locale. Perciò per rispettare le antiche tecniche occorre molta cautela’. Vien subito da pensare che, oggi, per ogni passata ridipintura, sarebbe possibile trovare una vera rassegna de ‘Il giornale di Sicilia’ corrispondente alle annate in cui si ordinò di volta in volta un cambiamento di colore delle stanze.
Oltre al cambiamento dei colori, cosa, come detto, niente affatto banale, Pia ha impresso tutto il suo stile alla casa: con numerose composizioni floreali, cuscini di gusto locale dai disegni decisi, piccoli tavolinetti e poltrone in ferro battuto nelle terrazze e nelle logge, preziose ceramiche di Caltagirone, antiche torcere con i Mori, splendidi Pupi e cineserie collezionate dalla sua famiglia d’origine.
Mentre parlo con le signore i domestici stanno riassettando la sala da ballo, il ‘cammarone’, come si dice qua in casa Calefati, dove tanti aristocratici palermitani hanno nel corso dei secoli trascorso le loro serate. ‘Cammarone’ nel quale, durante la Seconda Guerra, mentre la famiglia Calefati di Canalotti si era rifugiata nelle proprietà rurali attorno a Caltanissetta, si stabilirono gli Alleati, che ne fecero un ufficio di leva e della terrazza adiacente, più prosaicamente, una latrina, lasciando ai posteri come segno della loro presenza, l’abrasione definitiva del pavimento fatto di preziose maioliche di Caltagirone a causa del calpestio irriverente delle loro scarpe chiodate.
Tutte le stanze della dimora si sviluppano attorno a due cortili a loggiato dall’elegante sapore fané tipicamente palermitano e ricchi di piante tropicali e mediterranee. Sotto le volte che, al piano terra, uniscono i due cortili principali l’uno all’altro si trova una delicata Madonna in marmo che pare accogliere chi utilizza le scalinate padronali, nell’avviarsi a salirle o nel terminare di scenderle.
La struttura del palazzo mi pare comunque ben più complessa di come possano esplicarmela nella mia breve mattinata di visita, poiché intuisco la presenza di ulteriori numerosi spazi comuni, scale e scalette, tanto che al mio arrivo quasi mi perdo e mi suona consono quanto afferma Maria Calefati con una frase stentorea: “La Sicilia è una terra complicata. Ci crediamo il sale della terra, ci piace essere siciliani da un lato, dall’altro però abbiamo la difficoltà della nostra stessa natura, ovvero ‘Essere inturciunlati’” … troppo complicati appunto.
Le padrone di casa, passando di stanza in stanza, mi raccontano di come quelle siano sempre state aperta a tanti artisti, musicisti e intellettuali. In una delle varie e deliziose camere per gli ospiti, scopro, ad esempio, aver soggiornato spesso anche un mio vecchio amico, Philippe Daverio, oggi purtroppo scomparso. Vedo un bel ritratto della figlia Maria scattato dal fotografo Giovanni Gastel, ospitato di recente con sua moglie. Mi raccontano dell’amica artista Angela Pintaldi Carrubba, siracusana ma ormai milanese d’adozione, dei concerti tenuti in uno dei saloni da Massimo Scattolin e Franco Mezzena.
Infine, non posso fare a meno di notare che mi trovo a passeggio in mezzo ad una vera e propria quadreria composta di acquerelli raffiguranti il palazzo. Sono opere di un’artista canadese, Jaqueline Treloar, a cui tutti in casa Calefati appaiono molto affezionati. Durante una sua prima permanenza palermitana Jaqueline, scoperto ‘Ajutamicristo’, vi si intrufolava con metodo ogni giorno per trascorrere intere giornate a dipingere nei cortili, finché fu la stessa padrona di casa, Pia, che decise di scendere per salutare l’artista e invitarla di sopra negli appartamenti privati. Il sodalizio tra le due ha dato luogo negli anni ad una formidabile serie di rappresentazioni di ogni scorcio del palazzo, di cui, tra tutti, mi colpisce in particolare uno dal carattere quasi fantasioso: un’immaginaria oca che troneggia nel mezzo del ‘cammarone’. Noto solo una cosa: nei dipinti è assente, ipotizzo per ragioni anagrafiche, la piccola cagnolina bianca, Nanà, che ci sta seguendo da tutta la mattina. E’ un’assenza a cui cerco io stessa malamente di rimediare collocandola quanto più mi è possibile all’interno dei miei scatti. Devo ammettere che non è stata un’impresa difficile da realizzare, dato che, per fortuna, in casa Calefati di Canalotti a Nanà è concesso libero uso di ogni divano e poltrona.