La ricerca di un equivalente in lingua italiana per i termini giapponesi wabie sabi può rivelarsi un’impresa particolarmente ardua. Come molte altre parole legate alla sfera semantica delle emozioni, hanno subito nel corso dei secoli mutamenti culturali tali da acquisire un ampio e articolato bagaglio di significati. Le parole, in effetti, possono essere paragonate a un organismo vivente: subiscono dei cambiamenti, assumono una nuova forma e si adattano ai movimenti del tempo. Nel contesto giapponese, l’ambiguità riveste un ruolo centrale: spesso i soggetti e gli oggetti all’interno delle frasi vengono omessi, consentendo così un ampio spazio di interpretazione da parte del lettore o dell’ascoltatore. Questo fenomeno è esemplificato dalla struttura degli haiku, brevi componimenti poetici di soli tre versi, che presentano un’immagine evocativa, ma volutamente lasciata aperta a molteplici chiavi di lettura.

Wabi e sabi, due aspetti della stessa vita

A differenza della tradizione europea, in Giappone si predilige un approccio che valorizza quella vaghezza tanto ostentata dallo scrittore Yasunari Kawabata nel suo discorso tenuto in occasione del conferimento del Nobel per la letteratura nel 1968. Il detto zen Furyū monji 不立文字 “non dipendere dalle parole e dalle lettere” esprime proprio l’idea secondo cui nessuna comprensione profonda può essere affidata alla parola. Cercare di spiegare il percorso per giungere all’illuminazione sarebbe inutile quanto cercare di catturare il riflesso della luna in uno stagno.

La parola wabi 侘び deriva dal verbo wabu 侘ぶ “languire”, “addolorarsi”, e dall’aggettivo wabishii 侘しい, che veniva usato per esprimere sentimenti quali solitudine, abbandono e miseria. Tuttavia, questa connotazione negativa del termine subisce un cambiamento radicale nel corso dei periodi Kamakura (1185-1333) e Muromachi (1336-1573), quando iniziò a essere impiegata dai letterati per designare una vita ascetica e libera dalle lusinghe e dalle preoccupazioni del mondo materiale. Una vita di povertà era uno dei principi zen fondamentali per un monaco che cercava la verità ultima della realtà, e così da queste immagini negative nacque l’ideale poetico di un uomo che ha trasceso il bisogno delle comodità mondane, riuscendo a trovare pace e armonia nella più semplice e umile delle vite.

Una delle prime occorrenze del termine sabi 寂 in senso letterario, invece, fu fatta dal poeta Fujiwara No Toshinari (1114-1204), che lo utilizzò per trasmettere un senso di desolazione, attraverso l’uso di immagini come canne appassite dal gelo. Questo uso aumentò di pari passo con la visione buddista sulla transitorietà esistenziale della vita, nota come mujō 無常. Nulla rimane immutato: la vita è un viaggio che inizia dal grembo materno, attraversa ostacoli, difficoltà, gioie, delusioni, attimi spesi nella speranza e nell’abbraccio delle persone care, ma è limitata, destinata a sgretolarsi come la roccia corrosa dal fluire di un fiume.

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La caducità evoca nuovi modi di vivere

In Giappone la morte esercita sulle persone una profonda fascinazione, perché dall’effetto emotivo provocato dall’idea della caducità dell’esistenza, esse conferiscono forza e potere alle loro azioni. Con questa nuova energia, tuttavia, subentra anche un senso di desolazione inconsolabile, ed è questo sentimento a cui spesso viene applicato il termine sabi. Con il grande poeta di haiku Matsuo Bashō (1644–1684), il termine sabi assume una nuova connotazione: egli, infatti, impregna di bellezza gli aspetti della vecchiaia, della solitudine e della morte, che fino ad allora erano stati considerati negativi.

I termini wabi e sabi trovano entrambi le loro radici nel nichilismo zen, e trasmettono l’interazione tra giovinezza e vecchiaia, bellezza e bruttezza, vita e morte. Nello specifico, con wabi si intende la semplicità sia di oggetti naturali che realizzati dall’uomo, ma anche l’eleganza non ostentata; con sabi, invece, si indica la bellezza che accompagna l’avanzare dell’età, quando sugli oggetti è evidente la patina del tempo. Questi ideali estetici, presenti nella cerimonia del tè e in numerose forme d’arte, sono arrivati a rappresentare un ponte tra gli orpelli del mondo materiale e l’attrazione che l’uomo mostra verso una vita di austerità e semplicità. Wabi sabi è un apprezzamento nei confronti di una bellezza, appartenente al mondo fisico, destinata a svanire, è l’incanto che suscita ciò che è modesto, rustico, imperfetto e asimmetrico. È un inno che trascende i confini del tempo: niente permane, nulla è perfetto.

Maurizio Bertoli
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